venerdì 28 febbraio 2020

REVOCA DEL TESTAMENTO PER SOPRAVVENIENZA DI FIGLI.


L'art. 687 c.c. stabilisce che le disposizioni sia a titolo universale sia a titolo particolare, fatte da chi al tempo del testamento non aveva oppure ignorava di avere figli o discendenti sono revocate di diritto per l'esistenza o la sopravvenienza di un figlio o discendente  del testatore, benché postumo anche adottivo, ovvero per il riconoscimento di un figlio naturale.

La fattispecie legale della revocazione di diritto riguarda sia il caso in cui il testatore non aveva discendenza al tempo del testamento, sia l'ipotesi in cui la discendenza c'era già, ma egli ne ignorava l'esistenza.

La disposizione in esame, secondo l'orientamento prevalente non si applica per il caso del testamento redatto dal de cuius che, al momento della sua predisposizione, già avesse figli, dei quali fosse nota l'esistenza, e sia sopraggiunto un altro figlio.

Se il testatore aveva già avuto dei figli dei quali gli era nota l'esistenza al tempo della redazione del testamento e ne siano, successivamente, sopraggiunti degli altri, la revoca non è operante.

Ne deriva che è preclusa l'applicazione in via analogica alla fattispecie di figlio sopraggiunto dopo la redazione del testamento effettuata in presenza di altri figli.

L'eccezionalità dell'art. 687 c.c. si giustifica per due ragioni: da un lato, esso dà luogo a una fattispecie di inefficacia sopravvenuta di un negozio; dall'altro, esso pone una deroga al principio della prevalenza della successione testamentaria su quella legittima, valorizzato dall'art. 457 c.c., secondo cui non si fa luogo alla successione legittima se non quando manca in tutto o in parte quella testamentaria.
 
CASSAZIONE CIVILE SEZ. II - 21/05/2019, N. 13680


La dichiarazione giudiziale di paternità anche se intervenuta dopo la morte del de cuius comporta la revocazione del testamento per sopravvenienza di figli.In tema di revocazione del testamento per sopravvenienza di figli, il disposto dell'art. 687 c.c., comma 1, ha un fondamento oggettivo, riconducibile alla modificazione della situazione familiare rispetto a quella esistente al momento in cui il de cuius ha disposto dei suoi beni, sicché, dovendo ritenersi che tale modificazione sussista non solo quando il testatore riconosca un figlio ma anche quando venga esperita nei suoi confronti vittoriosamente l'azione di accertamento della filiazione, il testamento è revocato anche nel caso in cui si verifichi il secondo di tali eventi in virtù del combinato disposto dell'art. 277 c.c., comma 1, e art. 687 c.c., senza che abbia alcun rilievo che la dichiarazione giudiziale di paternità o la proposizione della relativa azione intervengano dopo la morte del de cuius, né che quest'ultimo, quando era in vita, non abbia voluto riconoscere il figlio, pur essendo a conoscenza della sua esistenza.

La pronunzia in esame conferma il recente orientamento assunto dalla giurisprudenza di legittimità, secondo cui la dichiarazione giudiziale di paternità (nel caso di specie, intervenuta, fra l'altro, dopo la morte del de cuius) comporta la revocazione del testamento per sopravvenienza di figli, nonostante l'art. 687 c.c. faccia riferimento alla sola e differente fattispecie di riconoscimento di figlio naturale.
 

La ratio della revocazione, ex art. 687 c.c., delle disposizioni, a titolo universale o particolare, va individuata nell'esigenza di tutelare i figli del disponente.
 

L'art. 687 c.c. realizza a favore dei legittimari un risultato ulteriore rispetto a quello che questi potrebbero conseguire con la semplice azione di riduzione.

Infatti, la disciplina della riserva non contempla l'inefficacia totale delle disposizioni del de cuius, ma la sola riduzione di quelle lesive per i legittimari.
 
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martedì 18 febbraio 2020

IL SUICIDIO ASSISTITO Corte Costituzionale, 22/11/2019, n.242


IL SUICIDIO ASSISTITO

Corte Costituzionale, 22/11/2019, n.242

“È costituzionalmente illegittimo l'art. 580 c.p., nella parte in cui non esclude la punibilità di chi, con le modalità previste dagli artt. 1 e 2 l. 22 dicembre 2019, n. 217 (Norme in materia di consenso informato e di disposizioni anticipate di trattamento) - ovvero, quanto ai fatti anteriori alla pubblicazione della presente sentenza nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica, con modalità equivalenti nei sensi di cui in motivazione -, agevola l'esecuzione del proposito di suicidio, autonomamente e liberamente formatosi, di una persona tenuta in vita da trattamenti di sostegno vitale e affetta da una patologia irreversibile, fonte di sofferenze fisiche o psicologiche che ella reputa intollerabili, ma pienamente capace di prendere decisioni libere e consapevoli, sempre che tali condizioni e le modalità di esecuzione siano state verificate da una struttura pubblica del servizio sanitario nazionale, previo parere del comitato etico territorialmente competente.”

La Corte Costituzionale  ammettere l'aiuto al suicidio, qualificandolo alla stregua di una modalità di esplicazione del diritto all'autodeterminazione terapeutica riconosciuto al paziente terminale ex art. 32 Cost. (ed ex art. 1 l. n. 219/2017).
La Corte ha quindi assimilato  tale pratica al rifiuto delle cure ed alla revoca del consenso in precedenza prestato ex art. 1, comma 5, l. n. 219.
In tal modo, è stata eliminata dall'ordinamento la norma penale che sanziona l'aiuto al suicidio per la parte ritenuta incostituzionale ed è stata dettata, in sede ricostruttiva,
In presenza di quattro condizioni soggettive riscontrabili in capo al paziente sarà possibile ricorrere alla “procedura medicalizzata” :

1) affetto da patologia irreversibile: 2) fonte di sofferenze fisiche o psicologiche, per sé assolutamente insopportabili; 3) tenuto in vita a mezzo di trattamenti di sostegno vitali; 4) e, tuttavia, capace di prendere decisioni libere e consapevoli.

La Corte non ha però legittimato l'eutanasia.
L'ordinamento permette al paziente di porre termine alla sua vita rifiutando le cure e i trattamenti sanitari (tramite la disciplina dettata dalla l. n. 219 del 2017), ma non consente però al medico di aiutare il paziente a porre termine alla sua esistenza in modo più veloce, laddove il malato ritenga tale ultima scelta maggiormente dignitosa per la propria esistenza.

L'eutanasia è l'atto con cui il medico somministra farmaci su richiesta del paziente con lo scopo di provocarne la morte immediata; invece, nel suicidio assistito, è «l'interessato che compie l'ultimo atto che provoca la morte, atto reso possibile grazie alla determinante collaborazione del terzo, il quale prescrive e porge il prodotto letale».

La Corte ammette così la legittimità del suicidio assistito, tuttavia la verifica di queste condizioni è affidato al Servizio Sanitario nazionale, onde evitare “abusi in danno di persone vulnerabili”, previo parere del comitato etico territoriale.

Il Servizio Sanitario Nazionale dovrà quindi verificare le quattro condizioni soggettive legittimanti il paziente a richiedere il suicidio assistito, oltre che stabilire la concreta esecuzione del suicidio tramite intervento del sanitario.

La concreta attuazione del suicidio assistito richiesto da parte di paziente capace di autodeterminarsi è comunque affidata alla libera coscienza del medico, che può “scegliere se prestarsi o no, a esaudire la richiesta del malato”.

La Corte ha conferito al paziente terminale un'importantissima facoltà, esercitabile a seconda della personale sensibilità, nell'individuazione della sua soggettiva dignità nella terminalità; un'innovativa facoltà che si aggiunge e si salda con i diritti che l'ordinamento già oggi gli riconosce: ovvero, il diritto di rifiutare le cure (art. 1, comma 5, l. 219/2017), di richiedere l'applicazione della terapia analgesica, di fruire della medicina palliativa e della sedazione palliativa profonda (art. 2), di redigere il proprio testamento biologico (art. 4) e di pianificare le cure (art. 5).

La posizione soggettiva del paziente terminale è qualificabile alla stregua di un diritto soggettivo finalizzato a conseguire dal servizio sanitario nazionale quella determinata condotta attiva o prestazione: costituito, appunto, dall'aiuto medicalizzato al suicido mediante preparazione del prodotto esiziale.

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TESTAMENTO BIOLOGICO LE DAT: DISPOSIZIONI ANTICIPATE DI TRATTAMENTO


TESTAMENTO BIOLOGICO

LE DAT: DISPOSIZIONI ANTICIPATE DI TRATTAMENTO

Legge 2 dicembre 2017 n. 219.

Nel rispetto dei principi di cui agli articoli 2, 13 e 32 della Costituzione e degli articoli 1, 2 e 3 della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea, a tutela del diritto alla vita, alla salute, alla dignità e all'autodeterminazione della persona, la legge rinforza il principio per cui nessun trattamento sanitario può essere iniziato o proseguito se privo del consenso libero e informato della persona interessata, tranne che nei casi espressamente previsti dalla legge.

Il cuore della legge è l’introduzione della disciplina delle DAT, disposizioni anticipate di trattamento, con le quali le persone possono dare indicazioni sui trattamenti sanitari da ricevere o da rifiutare nei casi in cui si trovassero in condizioni di incapacità.

Le DAT, disposizioni anticipate di trattamento, sono delle disposizioni che la persona, maggiorenne e capace di intendere e di volere, in previsione della eventuale futura incapacità di autodeterminarsi, può esprimere in merito alla accettazione o rifiuto di determinati: accertamenti diagnostici, scelte terapeutiche (in generale), singoli trattamenti sanitari (nutrizione e idratazione artificiale).

Le DAT possono essere redatte per atto pubblico notarile, la legge notarile prevede anche la possibilità di stipulare l’atto in presenza di due testimoni nel caso di impossibilità a firmare, o per scrittura privata autenticata dal notaio, od ancora per scrittura privata semplice consegnata personalmente all’Ufficio dello Stato Civile del Comune di residenza del disponente. L’atto non sconta nessun tipo di imposta (di registro, di bollo) né tassa o diritto.

È possibile inoltre, manifestare le DAT anche attraverso una videoregistrazione o anche altro dispositivo che consenta di comunicare.

La legge stabilisce che la persona acquisisca preventivamente adeguate informazioni mediche sulle conseguenze delle proprie scelte.

Le Dat possono essere revocate o modificate in qualunque momento, utilizzando la stessa forma con cui sono state rilasciate o, quando motivi di urgenza o altra impossibilità, non consentano di rispettare la stessa forma simmetrica, mediante dichiarazione verbale o videoregistrazione raccolta da un medico alla presenza di due testimoni.

Le Dat vengono pubblicizzate in un registro comunale o in un registro sanitario elettronico su base regionale, ove le Regioni abbiano istituito una modalità telematica di gestione della cartella clinica. In tal caso il disponente ha la scelta se far pubblicare copia della DAT ovvero lasciare solo indicazioni di chi sia il fiduciario o dove siano reperibili in copia.

Il Decreto n. 168 del 10 dicembre 2019, pubblicato nella Gazzetta ufficiale n. 13 del 17 gennaio 2020, disciplina le modalità di registrazione delle DAT nella Banca dati nazionale che ha la funzione di raccogliere copia delle disposizioni anticipate di trattamento, garantirne il tempestivo aggiornamento in caso di rinnovo, modifica o revoca, assicurare la piena accessibilità delle DAT sia da parte del medico che ha in cura il paziente, in situazioni di incapacità di autodeterminarsi, sia da parte del disponente che del fiduciario eventualmente da lui nominato.

La legge prevede la possibilità (non l’obbligo) di nominare un fiduciario che sostituisca il disponente divenuto incapace nei rapporti con i medici e la struttura sanitaria, eventualmente consentendo di disattenderle, di concerto con il medico, solo nel caso in cui appaiano palesemente incongrue, non siano corrispondenti alla condizione clinica attuale del paziente, siano sopravvenute terapie non prevedibili alla data di redazione delle DAT.


La banca dati registra anche copia della nomina dell'eventuale fiduciario e dell'accettazione o della rinuncia di questi ovvero della successiva revoca da parte del disponente.

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mercoledì 12 giugno 2019

FIDEIUSSIONE BANCARIA


Sentenza Cassazione 13846/19 del 22.5.19
La Suprema Corte è intervenuta ancora in materia di fideiussioni.
Le banche hanno utilizzato, tutte o quasi, lo stesso schema di contratto di fideiussione così come predisposto dall’Abi.
Questo modo di agire, tuttavia, era stato ritenuto illegittimo fino dal 2005 da Bankitalia in quanto limitava la libera concorrenza: gli istituti, così facendo, imponevano ai clienti le medesime condizioni, impedendo all’utenza una libera scelta.
Le banche, naturalmente, non hanno tenuto in nessuna considerazione la direttiva Bankitalia ed anche il provvedimento sanzionatorio emesso dall’AGCM (Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato) continuando sulla loro strada.
Ora, però, è intervenuta la Suprema Corte di Cassazione con la sentenza n. 13846/19 del 22.05.2019 statuendo che le intese miranti a limitare la concorrenza, ove sanzionate da un provvedimento emesso dall’ Autorità Garante a seguito di istruttoria, ed eventualmente confermate dal giudice amministrativo, assurgono a prove privilegiate.
In pratica, chi ha prestato una garanzia per un’apertura di credito o un finanziamento, ed il contratto è del tutto simile allo schema prefissato dall’Abi di qualche anno fa, non dovrà domandare una valutazione del giudice sull’illegittimità delle clausole della fideiussione, visto che questa valutazione è già stata fatta, a monte, dall’Autorità Garante e nel caso di specie anche da Bankitalia.
Il Tribunale dovrà quindi limitarsi a verificare se il contratto è sostanzialmente simile a quello dell’Abi, ed in tal caso dichiarare la fideiussione nulla con l'effetto di liberare il garante dal rischio dell'inadempimento del garantito.

Per consulenze o chiarimenti scrivere al seguente indirizzo mail avv.chiaraconsani@gmail.com

mercoledì 5 giugno 2019

COMMERCIALIZZAZIONE DI CANNABIS SATIVA L


E’ stata rimessa alle Sezioni unite la questione se le condotte diverse dalla coltivazione di canapa delle varietà di cui al catalogo indicato nell'articolo 1, comma 2, della legge 2 dicembre 2016 n. 242 - e, in particolare, la commercializzazione di cannabis sativa L - rientrino o meno nell'ambito di applicabilità della predetta legge e siano pertanto penalmente irrilevanti, ai sensi di tale normativa.

Ciò a fronte di un contrasto tra due diversi orientamenti giurisprudenziali.

1. Da un lato, un primo orientamento che ha fornito risposta negativa al quesito se la legge 242/2016 consenta anche la commercializzazione dei derivati della coltivazione della canapa (hashish e marijuana), sostenendo che tale normativa disciplini esclusivamente la coltivazione della canapa, consentendola, alle condizioni ivi indicate, soltanto per i fini commerciali elencati dall'articolo 1, comma 3, tra i quali non rientra la commercializzazione dei prodotti costituiti dalle infiorescenze e dalla resina.

2. Dall'altro, un secondo orientamento, di segno opposto, secondo cui, invece, proprio dalla liceità della coltivazione della cannabis, alla stregua della legge 242/2016, deriverebbe naturalmente la liceità dei suoi prodotti, contenenti un principio attivo inferiore allo 0,63, poiché essi non possono più essere considerati, ai fini giuridici, sostanze stupefacenti soggette alla disciplina del Dpr 309/1990, derivandone quindi che, ove sia incontroverso che le infiorescenze sequestrate provengano da coltivazioni lecite ai sensi della legge 242/2016, sarebbe da escludere la responsabilità penale sia dell'agricoltore che del commerciante, anche in caso di superamento del limite dello 0,63, essendo semmai ammissibile soltanto un sequestro in via amministrativa, a norma dell'articolo 4, comma 7, della legge 242/2016.

All’udienza del 30 maggio 2019, le Sezioni Unite hanno adottato la seguente soluzione: «la commercializzazione di cannabis sativa L. e, in particolare, di foglie, inflorescenze, olio, resina, ottenuti dalla coltivazione della predetta varietà di canapa, non rientra nell’ambito di applicazione della legge n. 242 del 2016, che qualifica come lecita unicamente l’attività di coltivazione di canapa delle varietà iscritte nel catalogo comune delle specie di piante agricole, ai sensi dell’art. 17 della direttiva 2002/53/CE del Consiglio, del 13 giugno 2002 e che elenca tassativamente i derivati dalla predetta coltivazione che possono essere commercializzati; pertanto, integrano il reato di cui all’art. 73, commi 1 e 4, dpr 309/1990, le condotte di cessione, vendita e, in genere, commercializzazione al pubblico, a qualsiasi titolo, dei prodotti derivati dalla cannabis sativa L, salvo che tali prodotti siano in concreto privi di efficacia drogante».

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martedì 28 maggio 2019

CONIUGE CHIAMATO ALL’EREDITA’


CONIUGE CHIAMATO ALL’EREDITA’

ART 485 C.C.

RINUNCIA ALL’EREDITA’ E DIRITTO DI ABITAZIONE EX ART 540 COMMA SECONDO C.C.

Al verificarsi dell’evento morte i chiamati all’eredità, coloro che sono stati indicati nel testamento ovvero, in assenza di atto di ultima volontà, i chiamati per legge, perché siano a tutti gli effetti eredi, devono accettare la quota di eredità a loro spettante.

L’accettazione può essere espressa o tacita: la prima è quella che risulta da atto scritto nel quale emerga chiaramente la volontà di far propria una parte dell’asse ereditario; la seconda si concreta in un comportamento che inequivocabilmente manifesti l’intenzione di divenire erede a tutti gli effetti.

Eccezionalmente, esistono dei casi in cui l’eredità si acquista senza alcuna accettazione, tacita o espressa che sia; si tratta: del chiamato che sia già in possesso dei beni ereditari e che, entro tre mesi dal giorno dell’apertura della successione, non abbia redatto inventario.

L'art. 485 cc prescrive che il chiamato all'eredità, quando a qualsiasi titolo è nel possesso di beni ereditari, deve fare l'inventario entro tre mesi dal giorno dell'apertura della successione o della notizia della devoluta eredità. Trascorso tale termine senza che l'inventario sia stato compiuto, il chiamato all'eredità è considerato erede puro e semplice.

In merito alla posizione del coniuge residente presso la casa coniugale e chiamato all’eredità, ciò che rileva ai fini dell’applicazione o meno dell’art 485 c.c. è la natura dei diritti di abitazione della casa adibita a residenza familiare e dell'uso dei mobili che la corredano, attribuiti al coniuge superstite dall'art. 540, co. 2 c.c. come novellato dalla l. 19 settembre 1975 n. 151.

L’orientamento espresso dalle Sezioni Unite Corte di Cassazione con la Sentenza n. 4847/13 supera quello espresso dalla Sentenza n. 11018/08, secondo cui il disposto dell'art. 540 c.c. - attributivo al coniuge superstite dei diritti di abitazione della casa familiare in proprietà del de cuius e di uso della relativa mobilia-  opererebbe solo nell'ambito della successione necessaria e non nell'ambito della successione legittima; cosicché, nel caso di successione legittima, l'abitazione, da parte del coniuge superstite, della casa familiare già in proprietà, anche parziale, del de cuius implicherebbe l'applicazione dell'art. 485 c.c., ai cui fini è sufficiente che il possesso riguardi anche uno solo dei beni ereditari (e dunque anche solo la quota della casa coniugale già di proprietà del "de cuius").

Le Sezioni Unite hanno invece affermato l'opposto principio secondo il quale i diritti di abitazione nella casa familiare e di uso della relativa mobilia spettano al coniuge superstite anche nella successione legittima.

Alla luce del richiamato orientamento delle Sezioni Unite, il solo fatto della permanenza del coniuge superstite nella casa familiare già in proprietà, anche parziale, del de cuius non può dunque ritenersi necessariamente una manifestazione di possesso dei beni ereditari, dovendo intendersi come il mero esercizio dei diritti di abitazione e di uso attribuiti al coniuge a titolo di legati ex lege.

In questo senso peraltro, già nel 2008, si era espressa la Sezione tributaria con la sentenza n. 1920/08, ove si precisava che i diritti di abitazione e di uso previsti dall'art. 540 c.c. a favore del coniuge superstite non sorgono in capo a quest'ultimo a titolo successorio - derivativo, bensì a diverso titolo, costitutivo, fondato sulla qualità di coniuge e prescindente dai diritti successori. Cosicché "Il titolo che abilita il coniuge al possesso del bene trova giustificazione nella norma civilistica che lo attribuisce indipendentemente dalla qualità di erede, con cui del resto il diritto di abitazione non ha nulla da spartire, essendo tale diritto acquisito, semmai, in forza di legato ex lege".

Per quanto sopra esposto il coniuge del defunto che continua ad abitare nella casa coniugale anche dopo i tre mesi dalla morte potrà ancora rinunciare all’eredità non trovandosi nel c.d. possesso dei beni ereditari disciplinato dall’art 485 c.c.

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lunedì 20 maggio 2019

IL DIRITTO DI ABITAZIONE IN CASO DI MORTE CONIUGE SEPARATO NON PIU’ CONVIVENTE


La Corte di Cassazione, con la sentenza 22 ottobre 2014, n. 22456, precisa che il diritto di abitazione sulla casa familiare, non può essere attribuito al coniuge superstite quando lo stesso sia legalmente separato e non più convivente nella casa oggetto della disposizione successoria.

In caso di separazione personale dei coniugi e di cessazione della convivenza, l’impossibilità di individuare una casa adibita a residenza familiare al momento dell’apertura della successione fa venire meno il presupposto oggettivo richiesto ai fini dell’attribuzione del diritto reale di abitazione al coniuge superstite.

L'art 540 c.c. riserva al coniuge del defunto il diritto di abitazione sulla casa adibita a residenza familiare e di uso dei mobili che la arredano.

L’art 548 c.c. attribuisce genericamente al coniuge separato cui non è stata addebitata la separazione, gli stessi diritti successori del coniuge non separato, si era ritenuta l’estensione automatica del diritto di abitazione.

Solo di recente la giurisprudenza di legittimità ha chiarito la questione dopo un decennio di contrastanti interpretazioni.

La sentenza n. 13.407 del 12/06/2014 ha ritenuto che il diritto reale di abitazione, riservato per legge al coniuge superstite ha ad aggetto l'immobile che in concreto era adibito a residenza familiare in cui entrambi i coniugi vivevano insieme stabilmente organizzandovi la vita domestica del gruppo familiare.

La Ratio della norma di cui all’art 540 c.c. non è tanto la tutela dell' ”interesse economico” del coniuge superstite di disporre di un alloggio, quanto dell'”interesse morale” legato alla conservazione dei rapporti affettivi e consuetudinari con la casa familiare.

Ad esempio: la conservazione della memoria del coniuge scomparso, e lo stato sociale goduto durante il matrimonio.

In caso di separazione personale dei coniugi e di cessazione della convivenza, l'impossibilità di individuare una casa adibita a residenza familiare fa venire meno il presupposto oggettivo richiesto ai fini dell'attribuzione del diritto di abitazione.

In maniera del tutto speculare la legge Cirinnà (L. n. 76/2016) ha previsto una specie di “diritto di abitazione sulla casa familiare”, anche se limitato nel tempo, al partner del defunto unito civilmente ricalcando, quindi, la disciplina dell’art. 540 Cod. Civ..

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ASSEGNAZIONE DELLA CASA FAMILIARE IN SEDE DI SEPARAZIONE E DIVORZIO ED OPPONIBILITA’ AI TERZI


Sentenza Cassazione civile, sez. II, 24/01/2018, n. 1744 che conferma l’ormai consolidato orientamento delle Sezioni Unite espresso con la Sentenza n. 11096 del 2002.

La Suprema Corte ha precisato che, il provvedimento di assegnazione della casa coniugale individua una posizione di «detenzione qualificata» a favore del coniuge assegnatario, essendo diretto a tutelare l’interesse della prole a permanere nell’abituale ambiente domestico. Tale diritto è opponibile al terzo che abbia acquistato successivamente una posizione giuridica incompatibile con quella del coniuge assegnatario (Cassazione, Sezioni Unite, 11096/2002); inoltre, il provvedimento giudiziale di assegnazione della casa familiare, in quanto avente data certa, è opponibile al terzo acquirente in data successiva, per nove anni dalla data di assegnazione, sia che il provvedimento giudiziale sia stato o meno trascritto nei Registri immobiliari.

Al principio di opponibilità al terzo acquirente del provvedimento di assegnazione consegue che il terzo è tenuto a rispettare il godimento del coniuge, nei limiti di durata innanzi precisati, quale vincolo di destinazione collegato all'interesse dei figli, e quindi con esclusione di qualsiasi obbligo di pagamento da parte del beneficiario per tale godimento. 
 
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sabato 4 novembre 2017

LE DONAZIONI DI STRUMENTI FINANZIARI DAL CONTO DI DEPOSITO TITOLI A MEZZO BANCA

 
Corte di Cassazione, Sezioni Unite, sentenza n. 18725 del 27 luglio 2017
Le Sezioni Unite hanno sciolto i dubbi sulla questione se un trasferimento di valori mobiliari mediante ordine impartito alla banca possa considerarsi donazione diretta o meno.

Le Sezioni Unite hanno così enunciato il seguente principio di diritto:

“ Il trasferimento per spirito di liberalità di strumenti finanziari dal conto di deposito titoli del beneficiario realizzato a mezzo banca, attraverso l’esecuzione di un ordine di bancogiro impartito dal disponente, non rientra tra le donazioni indirette, ma configura una donazione tipica ad esecuzione indiretta. Ne deriva che la stabilità dell’attribuzione patrimoniale presuppone la stipulazione dell’atto pubblico di donazione tra beneficiante e beneficiario, salvo che ricorra l’ipotesi della donazione di modico valore.”

La vicenda riguarda un trasferimento di valori mobiliari di cospicuo valore, depositati su conto bancario, eseguito a favore di un terzo – la convivente – in virtù di un ordine in tal senso impartito alla banca dal titolare del conto, deceduto pochi giorni dopo l’operazione. Apertasi la successione, la figlia del de cuius chiedeva la restituzione degli strumenti finanziari appartenuti al padre tenuti in un apposito conto di deposito titoli in amministrazione presso la banca, deducendo la nullità del negozio attributivo in quanto privo della forma solenne richiesta per la validità della donazione.

La questione giuridica di fondo affrontata dalle Sezioni Unite è la seguente:

un’operazione attributiva di strumenti finanziari, compiuta attraverso una banca chiamata a dare esecuzione all’ordine di trasferimento dei titoli impartito dal titolare con operazioni contabili di addebitamento e di accreditamento, costituisce una donazione tipica ex 769 c.c. oppure una donazione indiretta ai sensi dell’art. 809 c.c..?

Le Sezioni Unite in sintesi ritengono che l’operazione bancaria in adempimento dell’ordine impartito dal soggetto svolgerebbe una funzione esecutiva di un atto negoziale ad esso esterno, intercorrente tra il beneficiante e il beneficiario, il quale soltanto è in grado di giustificare gli effetti del trasferimento di valori da un patrimonio all’altro. Osserva la Corte, in altre parole, “si è di fronte, cioè, non ad una donazione attuata indirettamente in ragione della realizzazione indiretta della causa donandi, ma ad una donazione tipica ad esecuzione indiretta”, per cui il trasferimento trova la propria giustificazione nel rapporto tra l’ordinante – disponente e il beneficiario, dal quale dovrà desumersi se l’accreditamento (atto neutro) sia sorretto da una iusta causa: “di talché, ove questa si atteggi a causa donandi, occorre, ad evitare la ripetibilità dell’attribuzione patrimoniale da parte del donante, l’atto pubblico di donazione tra il beneficiante e il beneficiario, a meno che si tratti di donazione di modico valore”.

La riconduzione della fattispecie nella donazione diretta ha ricadute applicative assai rilevanti, ove si consideri che l’onere di forma è espressamente previsto dalla legge solamente per le donazioni dirette con la conseguente nullità nel caso di mancanza della forma solenne (atto pubblico e presenza dei testimoni).

LA CORTE COSTITUZIONALE SENTENZA N. 87 ANNO 2017

La Corte Costituzionale con la Sentenza n.87/2017 dell’Aprile 2017 ha definitivamente chiuso le questioni di incostituzionalità delle norme introdotte sui  contratti di locazione sorti a seguito della denuncia all’Agenzia delle entrate ai sensi dell’art 3 commi 8 e 9 del Dlgs 23/2011 dichiarando  non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 1, comma 59, della legge 28 dicembre 2015, n. 208, recante «Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (legge di stabilità 2016)», nella parte in cui sostituisce l’art. 13, comma 5, della legge 9 dicembre 1998, n. 431 (Disciplina delle locazioni e del rilascio degli immobili adibiti ad uso abitativo).
Si ricordano le precedenti Sentenze della Corte Costituzione in materia e precisamente:
i commi 8 e 9 dell’art. 3 del decreto legislativo 14 marzo 2011, n. 23 (Disposizioni in materia di federalismo Fiscale Municipale) – introduttivi di una disciplina “premiale” che, a beneficio dei conduttori che denunciavano al fisco il contratto non tempestivamente registrato dal locatore con clausole particolarmente favorevoli all’inquilino, che gli avrebbero assicurato una considerevole stabilità del rapporto locativo – sono stati dichiarati costituzionalmente illegittimi per violazione dell’art. 76 Cost., con sentenza di questa Corte n. 50 del 2014, in quanto estranei agli obiettivi ed ai criteri della legge di delega 5 maggio 2009, n. 42 (Delega al Governo in materia di federalismo fiscale, in attuazione dell’articolo 119 della Costituzione).

il comma 1-ter dell’art. 5 del decreto-legge 28 marzo 2014, n. 47 (Misure urgenti per l’emergenza abitativa, per il mercato delle costruzioni e per Expo 2015), convertito, con modificazioni, dalla legge 23 maggio 2014, n. 80 – con cui erano «fatti salvi, fino alla data del 31 dicembre 2015, gli effetti prodottisi e i rapporti giuridici sorti sulla base dei contratti di locazione registrati ai sensi dell’articolo 3, commi 8 e 9, del decreto legislativo 14 marzo 2011, n. 23» – è stato, a sua volta, dichiarato costituzionalmente illegittimo, per violazione dell’art. 136 Cost., con sentenza n. 169 del 2015, depositata il 16 luglio 2015.

E in ragione di tali premesse, è stato invocato il giudizio della Corte Costituzionale anche per la disposizione di cui al comma 59 dell’art. 1 della legge n. 208 del 2015 perché ritenuto che la stessa incorresse in analoga violazione dell’art. 136 Cost., per «l’elusione del giudicato (sostanziale)» di cui alla sentenza n. 50 del 2014, «e ciò a lume sia dei numerosi arresti della Corte costituzionale, intervenuti sul tema, sia delle precise ed inequivoche indicazioni» contenute nella sentenza n. 169 del 2015, che ha «ribadito l’intangibilità del decisum di cui alla precedente pronuncia n. 50 del 2014».
La Corte Costituzionale però ha ritenuto che il novellato comma 5 dell’art. 13 della legge n. 431 del 1998, in esame non fosse da cassare e precisamente:

Non sussiste la violazione dell’art. 136 Cost

La norma in esame non ripristina né ridefinisce il contenuto relativo a durata e corrispettivo dei pregressi contratti non registrati, la cui convalida, per effetto delle richiamate disposizioni del 2011 e del 2014, è venuta meno, ex tunc, in conseguenza delle correlative declaratorie di illegittimità costituzionale.

L’odierna disposizione prevede, piuttosto, una predeterminazione forfettaria del danno patito dal locatore e/o della misura dell’indennizzo dovuto dal conduttore (Corte di cassazione, sezione terza, sentenza 13 dicembre 2016, n. 25503), in ragione della occupazione illegittima del bene locato, stante la nullità del contratto e, dunque, l’assenza di suoi effetti ab origine.

La nuova disciplina si rivolge, comunque, soltanto alla particolare platea di conduttori individuata alla stregua della situazione di fatto determinatasi in base agli effetti della disciplina di cui all’art. 3, commi 8 e 9, del d.lgs. n. 23 del 2011, prorogati dall’art. 5, comma 1-ter, del d.l. n. 47 del 2014, nel periodo intercorso dalla data di entrata in vigore del suddetto d.lgs. del 2011 a quella (16 luglio 2015) di deposito della sentenza caducatoria n. 169 del 2015. E, per tal profilo, opera una selezione che trova giustificazione nella particolare situazione di diritto, ingenerata dalla normativa poi dichiarata illegittima, sulla quale il conduttore aveva però riposto affidamento (fino alla data, appunto della declaratoria di siffatta illegittimità), essendosi conformato a quanto da essa disposto.

La pur solo parziale coincidenza dell’importo del parametro indennitario, previsto dalla disposizione censurata, con quello del canone legale, individuato dalle pregresse norme dichiarate costituzionalmente illegittime, non è dunque sufficiente a determinare la violazione del giudicato costituzionale, atteso, appunto, il più ampio e differente assetto disciplinatorio dettato dalle norme dichiarate illegittime — le quali avevano mantenuto intatti gli effetti di un (convalidato) rapporto giuridico locatizio, con tutti i correlativi obblighi (reciproci), legali e convenzionali, e con le eventuali ricadute sul contenzioso concernente l’attuazione del rapporto stesso — rispetto alla disciplina recata dal vigente comma 5 dell’art. 13 della legge n. 431 del 1998, che quel rapporto conferma, invece, essere venuto meno ex tunc, regolandone soltanto le implicazioni indennitarie, in termini di occupazione sine titulo.
Non sussiste la violazione dell’art. 3 Cost.

È pur vero, infatti, che l’importo (pari al triplo della rendita catastale), che il comma 5 del novellato art. 13 della legge n. 431 del 1998 riconosce forfettariamente dovuto dai conduttori, per il periodo ivi indicato, è inferiore a quello (non eccedente il «valore minimo» definito dalla contrattazione collettiva territoriale) che il giudice può riconoscere dovuto dal conduttore «Nel giudizio che accerta l’esistenza del contratto di locazione», su azione dello stesso conduttore, ai sensi del comma 6 del medesimo riformulato art. 13.

Ma quelle la comparazione riguarda situazioni certamente non omogenee, attenendo la prima – in via transitoria – ad una «indennità» dovuta in correlazione ad una pregressa occupazione senza titolo, per di più qualificata dall’affidamento riposto dall’inquilino nel dettato normativo poi dichiarato costituzionalmente illegittimo, e riferendosi, diversamente, la seconda – a regime – ad un «canone» determinabile da parte del giudice «che accerta l’esistenza del contratto» (id est: l’esistenza di un contratto scritto non registrato nel termine prescritto): ipotesi, quest’ultima, che, per un verso, si diversifica da quella in precedenza disciplinata dal comma 5 dell’art. 13 nel testo originario, che aveva riguardo al solo contratto “di fatto” instaurato dal locatore, ossia al contratto verbale e, quindi, nullo per difetto di forma scritta ad substantiam; e per altro verso, ne assume la disciplina, giacché l’azione si concreta nell’“accertamento dell’esistenza” del contratto non registrato, quale operazione consentanea a rendere valido ed efficace un contratto nullo, che, in definitiva, pone tale, pur peculiare, seconda fattispecie sul piano della determinazione del corrispettivo di una locazione (recuperata in termini di validità ed efficacia), mentre la fattispecie in esame opera, come detto, sul diverso piano della predeterminazione forfettaria del danno patito dal locatore e/o della misura dell’utilizzo dovuto dal conduttore per l’occupazione di un immobile senza un valido titolo locativo.

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mercoledì 15 giugno 2016

LE CONVIVENZE DI FATTO ALLA LUCE DELLA CIRCOLARE N.7/2016 EMENATA DAL MINISTERO DEGLI INTERNI IL 1 GIUGNO 2016


LE CONVIVENZE DI FATTO ALLA LUCE DELLA CIRCOLARE N.7/2016 EMENATA DAL MINISTERO DEGLI INTERNI IL 1 GIUGNO 2016
Con l’entrata in vigore della legge Cirinnà, a partire dal 5 giugno 2016, all’apertura degli sportelli comunali, due persone dello stesso o di diverso sesso potranno presentarsi all’anagrafe per dichiarare la propria convivenza di fatto o per registrare il contratto di convivenza stipulato.
A differenza delle unioni civili, infatti, per le quali occorre attendere i provvedimenti attuativi del Governo, per le convivenze di fatto la legge è operativa sin da subito.
La circolare in esame ha dettato le prime indicazioni sugli adempimenti anagrafici da seguire:

La registrazione della convivenza

La registrazione del contratto di convivenza rappresenta un nuovo adempimento da parte degli uffici comunali  che configura la base giuridica della opponibilità del contratto di convivenza a terzi.

In particolare l’ufficiale di anagrafe del Comune di Residenza dei conviventi, ricevuta la copia del contratto di convivenza trasmessa dal professionista dovrà procedere tempestivamente a registrare nella scheda di famiglia dei conviventi oltre che nelle schede individuali, la data ed il luogo di stipula della convivenza e gli estremi della comunicazione del professionista, oltre che a conservare agli atti dell’ufficio copia del contratto. Anche la successiva risoluzione di convivenza dovrà essere registrata in entrambe le schede.

 

DIVISIONE A DOMANDA CONGIUNTA E PROPOSTA DI CONCILIAZIONE GIUDIZIALE Art 791-bis c.p.c


DIVISIONE A DOMANDA CONGIUNTA E PROPOSTA DI CONCILIAZIONE GIUDIZIALE
 
Art 791-bis c.p.c
La nuova disciplina della divisione su domanda congiunta, è stata introdotta dall'art. 76, D.L. 21.06.2013 , n. 69 (G.U. 21.06.2013, n. 144 - S.O. n. 50), così come modificato dall'allegato alla legge di conversione, L. 09.08.2013, n. 98 (G.U. 20.08.2013, n. 194, S.O. n. 63), con decorrenza dal 21.08.2013dal D.L. 21 giugno 2013 n. 69 (c.d. «decreto del fare»).
 
“Quando non sussiste controversia sul diritto alla divisione né sulle quote o altre questioni pregiudiziali gli eredi o condomini e gli eventuali creditori e aventi causa che hanno notificato o trascritto l'opposizione alla divisione possono, con ricorso congiunto al tribunale competente per territorio, domandare la nomina di un notaio ovvero di un avvocato aventi sede nel circondario al quale demandare le operazioni di divisione. Le sottoscrizioni apposte in calce al ricorso possono essere autenticate, quando le parti lo richiedono, da un notaio o da un avvocato. Se riguarda beni immobili, il ricorso deve essere trascritto a norma dell'articolo 2646 del codice civile. Si procede a norma degli articoli 737 e seguenti del presente codice. Il giudice, con decreto, nomina il professionista incaricato eventualmente indicato dalle parti e, su richiesta di quest'ultimo, nomina un esperto estimatore. Quando risulta che una delle parti di cui al primo comma non ha sottoscritto il ricorso, il professionista incaricato rimette gli atti al giudice che, con decreto, dichiara inammissibile la domanda e ordina la cancellazione della relativa trascrizione. Il decreto è reclamabile a norma dell'articolo 739. Il professionista incaricato designato, sentite le parti e gli eventuali creditori iscritti o aventi causa da uno dei partecipanti che hanno acquistato diritti sull'immobile a norma dell'articolo 1113 del codice civile, nel termine assegnato nel decreto di nomina predispone il progetto di divisione o dispone la vendita dei beni non comodamente divisibili e da' avviso alle parti e agli altri interessati del progetto o della vendita. Alla vendita dei beni si applicano, in quanto compatibili, le disposizioni relative al professionista delegato di cui al Libro terzo, Titolo II, Capo IV, Sezione III, § 3-bis. Entro trenta giorni dal versamento del prezzo il professionista incaricato predispone il progetto di divisione e ne da' avviso alle parti e agli altri interessati. Ciascuna delle parti o degli altri interessati puo' ricorrere al Tribunale nel termine perentorio di trenta giorni dalla ricezione dell'avviso per opporsi alla vendita di beni o contestare il progetto di divisione. Sull'opposizione il giudice procede secondo le disposizioni di cui al Libro quarto, Titolo I, Capo III bis; non si applicano quelle di cui ai commi secondo e terzo dell'articolo 702-ter. Se l'opposizione è accolta il giudice dà le disposizioni necessarie per la prosecuzione delle operazioni divisionali e rimette le parti avanti al professionista incaricato. Decorso il termine di cui al quarto comma senza che sia stata proposta opposizione, il professionista incaricato deposita in cancelleria il progetto con la prova degli avvisi effettuati. Il giudice dichiara esecutivo il progetto con decreto e rimette gli atti al professionista incaricato per gli adempimenti successivi.”

E’ uno strumento processuale nuovo che consente di pervenire alla divisione dei beni in comproprietà evitando di ricorrere al tradizionale processo contenzioso davanti al giudice civile.
La nuova procedura disciplinata all’art. 791-bis è caratterizzata da brevità rispetto alla procedura ordinaria.
Quando sussiste accordo tra le parti, ossia non sussistono contestazioni sul diritto alla divisione né sulle quote o altre questioni pregiudiziali, le parti interessate possono domandare congiuntamente al tribunale competente per territorio la nomina di un notaio ovvero di un avvocato aventi sede nel circondario a cui demandare le operazioni di divisione.
I soggetti legittimati a presentare domanda congiunta di divisione ex art. 791 bis sono gli eredi, i condomini, gli eventuali creditori e aventi causa che hanno notificato o trascritto l’opposizione alla divisione.
L’atto processuale è rappresentato da un ricorso congiunto, che viene depositato presso il Tribunale competente, con il quale si chiede la nomina di un professionista per le operazioni di divisione (notaio o avvocato).
Se la domanda ha ad oggetto beni immobili, il ricorso deve essere trascritto a norma dell’articolo 2646 c.c. La nuova procedura prevede che il giudice seguendo il procedimento camerale ex art. 737 c.p.c., con decreto, nomini il notaio eventualmente indicato dalle parti e, su richiesta di quest’ultimo, nomina un esperto estimatore.
Il professionista incaricato, sentite le parti e gli eventuali creditori iscritti o aventi causa da uno dei partecipanti che hanno acquistato diritti sull’immobile a norma dell’art. 1113 c.c., predispone il progetto di divisione o dispone la vendita dei beni non comodamente divisibili entro il termine assegnato nel decreto di nomina. Avvisa quindi le parti e gli altri interessati del progetto o della vendita.
Alle parti e agli altri interessati è concesso un termine di trenta giorni perché possano ricorrere al Tribunale competente per opporsi al progetto di divisione o alla vendita dei beni oggetto di divisione.
Detto termine ha natura perentoria e decorre dalla ricezione dell’avviso di progetto o di vendita.

Ove invece entro il termine dei trenta giorni non vengono sollevate contestazioni il professionista incaricato deposita il progetto con la prova degli avvisi; segue quindi il decreto con cui il giudice dichiara esecutivo il progetto e con cui rimette gli atti al professionista incaricato per gli adempimenti successivi.