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mercoledì 12 giugno 2019
FIDEIUSSIONE BANCARIA
Sentenza Cassazione 13846/19 del 22.5.19
La Suprema Corte è intervenuta ancora in materia di fideiussioni.
Le banche hanno utilizzato, tutte o quasi, lo stesso schema di contratto di fideiussione così come predisposto dall’Abi.
Questo modo di agire, tuttavia, era stato ritenuto illegittimo fino dal 2005 da Bankitalia in quanto limitava la libera concorrenza: gli istituti, così facendo, imponevano ai clienti le medesime condizioni, impedendo all’utenza una libera scelta.
Le banche, naturalmente, non hanno tenuto in nessuna considerazione la direttiva Bankitalia ed anche il provvedimento sanzionatorio emesso dall’AGCM (Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato) continuando sulla loro strada.
Ora, però, è intervenuta la Suprema Corte di Cassazione con la sentenza n. 13846/19 del 22.05.2019 statuendo che le intese miranti a limitare la concorrenza, ove sanzionate da un provvedimento emesso dall’ Autorità Garante a seguito di istruttoria, ed eventualmente confermate dal giudice amministrativo, assurgono a prove privilegiate.
In pratica, chi ha prestato una garanzia per un’apertura di credito o un finanziamento, ed il contratto è del tutto simile allo schema prefissato dall’Abi di qualche anno fa, non dovrà domandare una valutazione del giudice sull’illegittimità delle clausole della fideiussione, visto che questa valutazione è già stata fatta, a monte, dall’Autorità Garante e nel caso di specie anche da Bankitalia.
Il Tribunale dovrà quindi limitarsi a verificare se il contratto è sostanzialmente simile a quello dell’Abi, ed in tal caso dichiarare la fideiussione nulla con l'effetto di liberare il garante dal rischio dell'inadempimento del garantito.
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mercoledì 5 giugno 2019
COMMERCIALIZZAZIONE DI CANNABIS SATIVA L
E’ stata rimessa alle Sezioni unite la questione se le
condotte diverse dalla coltivazione di canapa delle varietà di cui al catalogo
indicato nell'articolo 1, comma 2, della legge 2 dicembre 2016 n. 242 - e, in particolare,
la commercializzazione di cannabis sativa L - rientrino o meno
nell'ambito di applicabilità della predetta legge e siano pertanto penalmente
irrilevanti, ai sensi di tale normativa.
Ciò a fronte di un contrasto tra due diversi
orientamenti giurisprudenziali.
1. Da un lato, un primo orientamento che ha fornito
risposta negativa al quesito se la legge 242/2016 consenta anche la
commercializzazione dei derivati della coltivazione della canapa (hashish e
marijuana), sostenendo che tale normativa disciplini esclusivamente la
coltivazione della canapa, consentendola, alle condizioni ivi indicate,
soltanto per i fini commerciali elencati dall'articolo 1, comma 3, tra i quali
non rientra la commercializzazione dei prodotti costituiti dalle infiorescenze
e dalla resina.
2. Dall'altro, un secondo orientamento, di segno
opposto, secondo cui, invece, proprio dalla liceità della coltivazione della
cannabis, alla stregua della legge 242/2016, deriverebbe naturalmente la
liceità dei suoi prodotti, contenenti un principio attivo inferiore allo 0,63,
poiché essi non possono più essere considerati, ai fini giuridici, sostanze
stupefacenti soggette alla disciplina del Dpr 309/1990, derivandone quindi che,
ove sia incontroverso che le infiorescenze sequestrate provengano da
coltivazioni lecite ai sensi della legge 242/2016, sarebbe da escludere la
responsabilità penale sia dell'agricoltore che del commerciante, anche in caso
di superamento del limite dello 0,63, essendo semmai ammissibile soltanto un
sequestro in via amministrativa, a norma dell'articolo 4, comma 7, della legge
242/2016.
All’udienza del 30 maggio 2019, le Sezioni Unite hanno
adottato la seguente soluzione: «la commercializzazione di cannabis sativa L. e, in particolare, di
foglie, inflorescenze, olio, resina, ottenuti dalla coltivazione della predetta
varietà di canapa, non rientra nell’ambito di applicazione della legge n. 242
del 2016, che qualifica come lecita unicamente l’attività di coltivazione di
canapa delle varietà iscritte nel catalogo comune delle specie di piante
agricole, ai sensi dell’art. 17 della direttiva 2002/53/CE del Consiglio, del
13 giugno 2002 e che elenca tassativamente i derivati dalla predetta
coltivazione che possono essere commercializzati; pertanto, integrano il reato
di cui all’art. 73, commi 1 e 4, dpr 309/1990, le condotte di cessione, vendita
e, in genere, commercializzazione al pubblico, a qualsiasi titolo, dei prodotti
derivati dalla cannabis sativa L, salvo che tali prodotti siano in concreto
privi di efficacia drogante».
Per ogni chiarimento: avv.chiaraconsani@gmail.com
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cannabis sativaL; Cassazione Penale sezioni
martedì 28 maggio 2019
CONIUGE CHIAMATO ALL’EREDITA’
CONIUGE CHIAMATO ALL’EREDITA’
ART 485 C.C.
RINUNCIA ALL’EREDITA’ E DIRITTO DI ABITAZIONE EX ART
540 COMMA SECONDO C.C.
Al verificarsi dell’evento morte i chiamati all’eredità,
coloro che sono stati indicati nel testamento ovvero, in assenza di atto di
ultima volontà, i chiamati per legge, perché siano a tutti gli effetti eredi,
devono accettare la quota di eredità a loro spettante.
L’accettazione può essere espressa o tacita: la prima
è quella che risulta da atto scritto nel quale emerga chiaramente la volontà di
far propria una parte dell’asse ereditario; la seconda si concreta in un
comportamento che inequivocabilmente manifesti l’intenzione di divenire erede a
tutti gli effetti.
Eccezionalmente, esistono dei casi in cui l’eredità si
acquista senza alcuna accettazione, tacita o espressa che sia; si tratta: del
chiamato che sia già in possesso dei beni ereditari e che, entro tre mesi dal
giorno dell’apertura della successione, non abbia redatto inventario.
L'art. 485 cc prescrive che il chiamato all'eredità,
quando a qualsiasi titolo è nel possesso di beni ereditari, deve fare
l'inventario entro tre mesi dal giorno dell'apertura della successione o della
notizia della devoluta eredità. Trascorso tale termine senza che l'inventario
sia stato compiuto, il chiamato all'eredità è considerato erede puro e
semplice.
In merito alla posizione
del coniuge residente presso la casa coniugale e chiamato
all’eredità, ciò che rileva
ai fini dell’applicazione o meno dell’art 485 c.c. è la natura dei diritti di
abitazione della casa adibita a residenza familiare e dell'uso dei mobili che
la corredano, attribuiti al coniuge superstite dall'art. 540, co. 2 c.c. come
novellato dalla l. 19 settembre 1975 n. 151.
L’orientamento espresso dalle Sezioni Unite Corte
di Cassazione con la Sentenza n. 4847/13 supera quello espresso dalla
Sentenza n. 11018/08, secondo cui il disposto dell'art. 540 c.c. - attributivo
al coniuge superstite dei diritti di abitazione della casa familiare in
proprietà del de cuius e di uso della relativa mobilia- opererebbe solo nell'ambito della successione
necessaria e non nell'ambito della successione legittima; cosicché, nel caso di
successione legittima, l'abitazione, da parte del coniuge superstite, della
casa familiare già in proprietà, anche parziale, del de cuius implicherebbe l'applicazione
dell'art. 485 c.c., ai cui fini è sufficiente che il possesso riguardi anche
uno solo dei beni ereditari (e dunque anche solo la quota della casa coniugale
già di proprietà del "de cuius").
Le Sezioni Unite hanno invece affermato l'opposto
principio secondo il quale i diritti di abitazione nella casa familiare e di
uso della relativa mobilia spettano al coniuge superstite anche nella
successione legittima.
Alla luce del richiamato orientamento delle Sezioni
Unite, il solo fatto della permanenza del coniuge superstite nella casa
familiare già in proprietà, anche parziale, del de cuius non può dunque
ritenersi necessariamente una manifestazione di possesso dei beni ereditari, dovendo
intendersi come il mero esercizio dei diritti di abitazione e di uso attribuiti
al coniuge a titolo di legati ex lege.
In questo senso peraltro, già nel 2008, si era
espressa la Sezione tributaria con la sentenza n. 1920/08, ove si precisava che
i diritti di abitazione e di uso previsti dall'art. 540 c.c. a favore del
coniuge superstite non sorgono in capo a quest'ultimo a titolo successorio -
derivativo, bensì a diverso titolo, costitutivo, fondato sulla qualità di
coniuge e prescindente dai diritti successori. Cosicché "Il titolo che abilita il coniuge al possesso
del bene trova giustificazione nella norma civilistica che lo attribuisce
indipendentemente dalla qualità di erede, con cui del resto il diritto di
abitazione non ha nulla da spartire, essendo tale diritto acquisito, semmai, in
forza di legato ex lege".
Per quanto sopra esposto il coniuge del defunto che
continua ad abitare nella casa coniugale anche dopo i tre mesi dalla morte
potrà ancora rinunciare all’eredità non trovandosi nel c.d. possesso dei beni
ereditari disciplinato dall’art 485 c.c.
Per ogni chiarimento non esitare a contattarmi via una
e-mail: avv.chiaraconsani@gmail.com
lunedì 20 maggio 2019
IL DIRITTO DI ABITAZIONE IN CASO DI MORTE CONIUGE SEPARATO NON PIU’ CONVIVENTE
La Corte di Cassazione, con la sentenza 22 ottobre
2014, n. 22456, precisa che il diritto di abitazione sulla casa familiare, non
può essere attribuito al coniuge superstite quando lo stesso sia legalmente
separato e non più convivente nella casa oggetto della disposizione
successoria.
In caso di separazione personale dei coniugi e di
cessazione della convivenza, l’impossibilità di individuare una casa adibita a
residenza familiare al momento dell’apertura della successione fa venire meno
il presupposto oggettivo richiesto ai fini dell’attribuzione del diritto reale
di abitazione al coniuge superstite.
L'art 540 c.c. riserva al coniuge del defunto il
diritto di abitazione sulla casa adibita a residenza familiare e di uso dei
mobili che la arredano.
L’art 548 c.c. attribuisce genericamente al coniuge
separato cui non è stata addebitata la separazione, gli stessi diritti
successori del coniuge non separato, si era ritenuta l’estensione automatica
del diritto di abitazione.
Solo di recente la giurisprudenza di legittimità ha
chiarito la questione dopo un decennio di contrastanti interpretazioni.
La sentenza n. 13.407 del 12/06/2014 ha ritenuto che
il diritto reale di abitazione, riservato per legge al coniuge superstite ha ad
aggetto l'immobile che in concreto era adibito a residenza familiare in cui
entrambi i coniugi vivevano insieme stabilmente organizzandovi la vita
domestica del gruppo familiare.
La Ratio della norma di cui all’art 540 c.c. non è
tanto la tutela dell' ”interesse economico” del coniuge superstite di disporre
di un alloggio, quanto dell'”interesse morale” legato alla conservazione dei
rapporti affettivi e consuetudinari con la casa familiare.
Ad esempio: la conservazione della memoria del coniuge
scomparso, e lo stato sociale goduto durante il matrimonio.
In caso di separazione personale dei coniugi e di
cessazione della convivenza, l'impossibilità di individuare una casa adibita a
residenza familiare fa venire meno il presupposto oggettivo richiesto ai fini
dell'attribuzione del diritto di abitazione.
In maniera del tutto speculare la legge Cirinnà (L. n.
76/2016) ha previsto una specie di “diritto di abitazione sulla casa
familiare”, anche se limitato nel tempo, al partner del defunto unito
civilmente ricalcando, quindi, la disciplina dell’art. 540 Cod. Civ..
PER CHIARIMENTI E CONSULENZE SCRIVERE ALLA SEGUENTE
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ASSEGNAZIONE DELLA CASA FAMILIARE IN SEDE DI SEPARAZIONE E DIVORZIO ED OPPONIBILITA’ AI TERZI
Sentenza Cassazione civile, sez. II, 24/01/2018, n.
1744 che conferma l’ormai consolidato orientamento delle Sezioni Unite espresso
con la Sentenza n. 11096 del 2002.
La Suprema Corte ha precisato che, il provvedimento di
assegnazione della casa coniugale individua una posizione di «detenzione
qualificata» a favore del coniuge assegnatario, essendo diretto a tutelare
l’interesse della prole a permanere nell’abituale ambiente domestico. Tale
diritto è opponibile al terzo che abbia acquistato successivamente una
posizione giuridica incompatibile con quella del coniuge assegnatario
(Cassazione, Sezioni Unite, 11096/2002); inoltre, il provvedimento giudiziale
di assegnazione della casa familiare, in quanto avente data certa, è opponibile
al terzo acquirente in data successiva, per nove anni dalla data di
assegnazione, sia che il provvedimento giudiziale sia stato o meno trascritto
nei Registri immobiliari.
Al principio di opponibilità al terzo acquirente del
provvedimento di assegnazione consegue che il terzo è tenuto a rispettare il
godimento del coniuge, nei limiti di durata innanzi precisati, quale vincolo di
destinazione collegato all'interesse dei figli, e quindi con esclusione di
qualsiasi obbligo di pagamento da parte del beneficiario per tale godimento.
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