lunedì 20 maggio 2019

IL DIRITTO DI ABITAZIONE IN CASO DI MORTE CONIUGE SEPARATO NON PIU’ CONVIVENTE


La Corte di Cassazione, con la sentenza 22 ottobre 2014, n. 22456, precisa che il diritto di abitazione sulla casa familiare, non può essere attribuito al coniuge superstite quando lo stesso sia legalmente separato e non più convivente nella casa oggetto della disposizione successoria.

In caso di separazione personale dei coniugi e di cessazione della convivenza, l’impossibilità di individuare una casa adibita a residenza familiare al momento dell’apertura della successione fa venire meno il presupposto oggettivo richiesto ai fini dell’attribuzione del diritto reale di abitazione al coniuge superstite.

L'art 540 c.c. riserva al coniuge del defunto il diritto di abitazione sulla casa adibita a residenza familiare e di uso dei mobili che la arredano.

L’art 548 c.c. attribuisce genericamente al coniuge separato cui non è stata addebitata la separazione, gli stessi diritti successori del coniuge non separato, si era ritenuta l’estensione automatica del diritto di abitazione.

Solo di recente la giurisprudenza di legittimità ha chiarito la questione dopo un decennio di contrastanti interpretazioni.

La sentenza n. 13.407 del 12/06/2014 ha ritenuto che il diritto reale di abitazione, riservato per legge al coniuge superstite ha ad aggetto l'immobile che in concreto era adibito a residenza familiare in cui entrambi i coniugi vivevano insieme stabilmente organizzandovi la vita domestica del gruppo familiare.

La Ratio della norma di cui all’art 540 c.c. non è tanto la tutela dell' ”interesse economico” del coniuge superstite di disporre di un alloggio, quanto dell'”interesse morale” legato alla conservazione dei rapporti affettivi e consuetudinari con la casa familiare.

Ad esempio: la conservazione della memoria del coniuge scomparso, e lo stato sociale goduto durante il matrimonio.

In caso di separazione personale dei coniugi e di cessazione della convivenza, l'impossibilità di individuare una casa adibita a residenza familiare fa venire meno il presupposto oggettivo richiesto ai fini dell'attribuzione del diritto di abitazione.

In maniera del tutto speculare la legge Cirinnà (L. n. 76/2016) ha previsto una specie di “diritto di abitazione sulla casa familiare”, anche se limitato nel tempo, al partner del defunto unito civilmente ricalcando, quindi, la disciplina dell’art. 540 Cod. Civ..

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ASSEGNAZIONE DELLA CASA FAMILIARE IN SEDE DI SEPARAZIONE E DIVORZIO ED OPPONIBILITA’ AI TERZI


Sentenza Cassazione civile, sez. II, 24/01/2018, n. 1744 che conferma l’ormai consolidato orientamento delle Sezioni Unite espresso con la Sentenza n. 11096 del 2002.

La Suprema Corte ha precisato che, il provvedimento di assegnazione della casa coniugale individua una posizione di «detenzione qualificata» a favore del coniuge assegnatario, essendo diretto a tutelare l’interesse della prole a permanere nell’abituale ambiente domestico. Tale diritto è opponibile al terzo che abbia acquistato successivamente una posizione giuridica incompatibile con quella del coniuge assegnatario (Cassazione, Sezioni Unite, 11096/2002); inoltre, il provvedimento giudiziale di assegnazione della casa familiare, in quanto avente data certa, è opponibile al terzo acquirente in data successiva, per nove anni dalla data di assegnazione, sia che il provvedimento giudiziale sia stato o meno trascritto nei Registri immobiliari.

Al principio di opponibilità al terzo acquirente del provvedimento di assegnazione consegue che il terzo è tenuto a rispettare il godimento del coniuge, nei limiti di durata innanzi precisati, quale vincolo di destinazione collegato all'interesse dei figli, e quindi con esclusione di qualsiasi obbligo di pagamento da parte del beneficiario per tale godimento. 
 
Per ogni chiarimento non esitare a contattarmi via una e-mail: avv.chiaraconsani@gmail.com



sabato 4 novembre 2017

LE DONAZIONI DI STRUMENTI FINANZIARI DAL CONTO DI DEPOSITO TITOLI A MEZZO BANCA

 
Corte di Cassazione, Sezioni Unite, sentenza n. 18725 del 27 luglio 2017
Le Sezioni Unite hanno sciolto i dubbi sulla questione se un trasferimento di valori mobiliari mediante ordine impartito alla banca possa considerarsi donazione diretta o meno.

Le Sezioni Unite hanno così enunciato il seguente principio di diritto:

“ Il trasferimento per spirito di liberalità di strumenti finanziari dal conto di deposito titoli del beneficiario realizzato a mezzo banca, attraverso l’esecuzione di un ordine di bancogiro impartito dal disponente, non rientra tra le donazioni indirette, ma configura una donazione tipica ad esecuzione indiretta. Ne deriva che la stabilità dell’attribuzione patrimoniale presuppone la stipulazione dell’atto pubblico di donazione tra beneficiante e beneficiario, salvo che ricorra l’ipotesi della donazione di modico valore.”

La vicenda riguarda un trasferimento di valori mobiliari di cospicuo valore, depositati su conto bancario, eseguito a favore di un terzo – la convivente – in virtù di un ordine in tal senso impartito alla banca dal titolare del conto, deceduto pochi giorni dopo l’operazione. Apertasi la successione, la figlia del de cuius chiedeva la restituzione degli strumenti finanziari appartenuti al padre tenuti in un apposito conto di deposito titoli in amministrazione presso la banca, deducendo la nullità del negozio attributivo in quanto privo della forma solenne richiesta per la validità della donazione.

La questione giuridica di fondo affrontata dalle Sezioni Unite è la seguente:

un’operazione attributiva di strumenti finanziari, compiuta attraverso una banca chiamata a dare esecuzione all’ordine di trasferimento dei titoli impartito dal titolare con operazioni contabili di addebitamento e di accreditamento, costituisce una donazione tipica ex 769 c.c. oppure una donazione indiretta ai sensi dell’art. 809 c.c..?

Le Sezioni Unite in sintesi ritengono che l’operazione bancaria in adempimento dell’ordine impartito dal soggetto svolgerebbe una funzione esecutiva di un atto negoziale ad esso esterno, intercorrente tra il beneficiante e il beneficiario, il quale soltanto è in grado di giustificare gli effetti del trasferimento di valori da un patrimonio all’altro. Osserva la Corte, in altre parole, “si è di fronte, cioè, non ad una donazione attuata indirettamente in ragione della realizzazione indiretta della causa donandi, ma ad una donazione tipica ad esecuzione indiretta”, per cui il trasferimento trova la propria giustificazione nel rapporto tra l’ordinante – disponente e il beneficiario, dal quale dovrà desumersi se l’accreditamento (atto neutro) sia sorretto da una iusta causa: “di talché, ove questa si atteggi a causa donandi, occorre, ad evitare la ripetibilità dell’attribuzione patrimoniale da parte del donante, l’atto pubblico di donazione tra il beneficiante e il beneficiario, a meno che si tratti di donazione di modico valore”.

La riconduzione della fattispecie nella donazione diretta ha ricadute applicative assai rilevanti, ove si consideri che l’onere di forma è espressamente previsto dalla legge solamente per le donazioni dirette con la conseguente nullità nel caso di mancanza della forma solenne (atto pubblico e presenza dei testimoni).

LA CORTE COSTITUZIONALE SENTENZA N. 87 ANNO 2017

La Corte Costituzionale con la Sentenza n.87/2017 dell’Aprile 2017 ha definitivamente chiuso le questioni di incostituzionalità delle norme introdotte sui  contratti di locazione sorti a seguito della denuncia all’Agenzia delle entrate ai sensi dell’art 3 commi 8 e 9 del Dlgs 23/2011 dichiarando  non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 1, comma 59, della legge 28 dicembre 2015, n. 208, recante «Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (legge di stabilità 2016)», nella parte in cui sostituisce l’art. 13, comma 5, della legge 9 dicembre 1998, n. 431 (Disciplina delle locazioni e del rilascio degli immobili adibiti ad uso abitativo).
Si ricordano le precedenti Sentenze della Corte Costituzione in materia e precisamente:
i commi 8 e 9 dell’art. 3 del decreto legislativo 14 marzo 2011, n. 23 (Disposizioni in materia di federalismo Fiscale Municipale) – introduttivi di una disciplina “premiale” che, a beneficio dei conduttori che denunciavano al fisco il contratto non tempestivamente registrato dal locatore con clausole particolarmente favorevoli all’inquilino, che gli avrebbero assicurato una considerevole stabilità del rapporto locativo – sono stati dichiarati costituzionalmente illegittimi per violazione dell’art. 76 Cost., con sentenza di questa Corte n. 50 del 2014, in quanto estranei agli obiettivi ed ai criteri della legge di delega 5 maggio 2009, n. 42 (Delega al Governo in materia di federalismo fiscale, in attuazione dell’articolo 119 della Costituzione).

il comma 1-ter dell’art. 5 del decreto-legge 28 marzo 2014, n. 47 (Misure urgenti per l’emergenza abitativa, per il mercato delle costruzioni e per Expo 2015), convertito, con modificazioni, dalla legge 23 maggio 2014, n. 80 – con cui erano «fatti salvi, fino alla data del 31 dicembre 2015, gli effetti prodottisi e i rapporti giuridici sorti sulla base dei contratti di locazione registrati ai sensi dell’articolo 3, commi 8 e 9, del decreto legislativo 14 marzo 2011, n. 23» – è stato, a sua volta, dichiarato costituzionalmente illegittimo, per violazione dell’art. 136 Cost., con sentenza n. 169 del 2015, depositata il 16 luglio 2015.

E in ragione di tali premesse, è stato invocato il giudizio della Corte Costituzionale anche per la disposizione di cui al comma 59 dell’art. 1 della legge n. 208 del 2015 perché ritenuto che la stessa incorresse in analoga violazione dell’art. 136 Cost., per «l’elusione del giudicato (sostanziale)» di cui alla sentenza n. 50 del 2014, «e ciò a lume sia dei numerosi arresti della Corte costituzionale, intervenuti sul tema, sia delle precise ed inequivoche indicazioni» contenute nella sentenza n. 169 del 2015, che ha «ribadito l’intangibilità del decisum di cui alla precedente pronuncia n. 50 del 2014».
La Corte Costituzionale però ha ritenuto che il novellato comma 5 dell’art. 13 della legge n. 431 del 1998, in esame non fosse da cassare e precisamente:

Non sussiste la violazione dell’art. 136 Cost

La norma in esame non ripristina né ridefinisce il contenuto relativo a durata e corrispettivo dei pregressi contratti non registrati, la cui convalida, per effetto delle richiamate disposizioni del 2011 e del 2014, è venuta meno, ex tunc, in conseguenza delle correlative declaratorie di illegittimità costituzionale.

L’odierna disposizione prevede, piuttosto, una predeterminazione forfettaria del danno patito dal locatore e/o della misura dell’indennizzo dovuto dal conduttore (Corte di cassazione, sezione terza, sentenza 13 dicembre 2016, n. 25503), in ragione della occupazione illegittima del bene locato, stante la nullità del contratto e, dunque, l’assenza di suoi effetti ab origine.

La nuova disciplina si rivolge, comunque, soltanto alla particolare platea di conduttori individuata alla stregua della situazione di fatto determinatasi in base agli effetti della disciplina di cui all’art. 3, commi 8 e 9, del d.lgs. n. 23 del 2011, prorogati dall’art. 5, comma 1-ter, del d.l. n. 47 del 2014, nel periodo intercorso dalla data di entrata in vigore del suddetto d.lgs. del 2011 a quella (16 luglio 2015) di deposito della sentenza caducatoria n. 169 del 2015. E, per tal profilo, opera una selezione che trova giustificazione nella particolare situazione di diritto, ingenerata dalla normativa poi dichiarata illegittima, sulla quale il conduttore aveva però riposto affidamento (fino alla data, appunto della declaratoria di siffatta illegittimità), essendosi conformato a quanto da essa disposto.

La pur solo parziale coincidenza dell’importo del parametro indennitario, previsto dalla disposizione censurata, con quello del canone legale, individuato dalle pregresse norme dichiarate costituzionalmente illegittime, non è dunque sufficiente a determinare la violazione del giudicato costituzionale, atteso, appunto, il più ampio e differente assetto disciplinatorio dettato dalle norme dichiarate illegittime — le quali avevano mantenuto intatti gli effetti di un (convalidato) rapporto giuridico locatizio, con tutti i correlativi obblighi (reciproci), legali e convenzionali, e con le eventuali ricadute sul contenzioso concernente l’attuazione del rapporto stesso — rispetto alla disciplina recata dal vigente comma 5 dell’art. 13 della legge n. 431 del 1998, che quel rapporto conferma, invece, essere venuto meno ex tunc, regolandone soltanto le implicazioni indennitarie, in termini di occupazione sine titulo.
Non sussiste la violazione dell’art. 3 Cost.

È pur vero, infatti, che l’importo (pari al triplo della rendita catastale), che il comma 5 del novellato art. 13 della legge n. 431 del 1998 riconosce forfettariamente dovuto dai conduttori, per il periodo ivi indicato, è inferiore a quello (non eccedente il «valore minimo» definito dalla contrattazione collettiva territoriale) che il giudice può riconoscere dovuto dal conduttore «Nel giudizio che accerta l’esistenza del contratto di locazione», su azione dello stesso conduttore, ai sensi del comma 6 del medesimo riformulato art. 13.

Ma quelle la comparazione riguarda situazioni certamente non omogenee, attenendo la prima – in via transitoria – ad una «indennità» dovuta in correlazione ad una pregressa occupazione senza titolo, per di più qualificata dall’affidamento riposto dall’inquilino nel dettato normativo poi dichiarato costituzionalmente illegittimo, e riferendosi, diversamente, la seconda – a regime – ad un «canone» determinabile da parte del giudice «che accerta l’esistenza del contratto» (id est: l’esistenza di un contratto scritto non registrato nel termine prescritto): ipotesi, quest’ultima, che, per un verso, si diversifica da quella in precedenza disciplinata dal comma 5 dell’art. 13 nel testo originario, che aveva riguardo al solo contratto “di fatto” instaurato dal locatore, ossia al contratto verbale e, quindi, nullo per difetto di forma scritta ad substantiam; e per altro verso, ne assume la disciplina, giacché l’azione si concreta nell’“accertamento dell’esistenza” del contratto non registrato, quale operazione consentanea a rendere valido ed efficace un contratto nullo, che, in definitiva, pone tale, pur peculiare, seconda fattispecie sul piano della determinazione del corrispettivo di una locazione (recuperata in termini di validità ed efficacia), mentre la fattispecie in esame opera, come detto, sul diverso piano della predeterminazione forfettaria del danno patito dal locatore e/o della misura dell’utilizzo dovuto dal conduttore per l’occupazione di un immobile senza un valido titolo locativo.

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mercoledì 15 giugno 2016

LE CONVIVENZE DI FATTO ALLA LUCE DELLA CIRCOLARE N.7/2016 EMENATA DAL MINISTERO DEGLI INTERNI IL 1 GIUGNO 2016


LE CONVIVENZE DI FATTO ALLA LUCE DELLA CIRCOLARE N.7/2016 EMENATA DAL MINISTERO DEGLI INTERNI IL 1 GIUGNO 2016
Con l’entrata in vigore della legge Cirinnà, a partire dal 5 giugno 2016, all’apertura degli sportelli comunali, due persone dello stesso o di diverso sesso potranno presentarsi all’anagrafe per dichiarare la propria convivenza di fatto o per registrare il contratto di convivenza stipulato.
A differenza delle unioni civili, infatti, per le quali occorre attendere i provvedimenti attuativi del Governo, per le convivenze di fatto la legge è operativa sin da subito.
La circolare in esame ha dettato le prime indicazioni sugli adempimenti anagrafici da seguire:

La registrazione della convivenza

La registrazione del contratto di convivenza rappresenta un nuovo adempimento da parte degli uffici comunali  che configura la base giuridica della opponibilità del contratto di convivenza a terzi.

In particolare l’ufficiale di anagrafe del Comune di Residenza dei conviventi, ricevuta la copia del contratto di convivenza trasmessa dal professionista dovrà procedere tempestivamente a registrare nella scheda di famiglia dei conviventi oltre che nelle schede individuali, la data ed il luogo di stipula della convivenza e gli estremi della comunicazione del professionista, oltre che a conservare agli atti dell’ufficio copia del contratto. Anche la successiva risoluzione di convivenza dovrà essere registrata in entrambe le schede.

 

DIVISIONE A DOMANDA CONGIUNTA E PROPOSTA DI CONCILIAZIONE GIUDIZIALE Art 791-bis c.p.c


DIVISIONE A DOMANDA CONGIUNTA E PROPOSTA DI CONCILIAZIONE GIUDIZIALE
 
Art 791-bis c.p.c
La nuova disciplina della divisione su domanda congiunta, è stata introdotta dall'art. 76, D.L. 21.06.2013 , n. 69 (G.U. 21.06.2013, n. 144 - S.O. n. 50), così come modificato dall'allegato alla legge di conversione, L. 09.08.2013, n. 98 (G.U. 20.08.2013, n. 194, S.O. n. 63), con decorrenza dal 21.08.2013dal D.L. 21 giugno 2013 n. 69 (c.d. «decreto del fare»).
 
“Quando non sussiste controversia sul diritto alla divisione né sulle quote o altre questioni pregiudiziali gli eredi o condomini e gli eventuali creditori e aventi causa che hanno notificato o trascritto l'opposizione alla divisione possono, con ricorso congiunto al tribunale competente per territorio, domandare la nomina di un notaio ovvero di un avvocato aventi sede nel circondario al quale demandare le operazioni di divisione. Le sottoscrizioni apposte in calce al ricorso possono essere autenticate, quando le parti lo richiedono, da un notaio o da un avvocato. Se riguarda beni immobili, il ricorso deve essere trascritto a norma dell'articolo 2646 del codice civile. Si procede a norma degli articoli 737 e seguenti del presente codice. Il giudice, con decreto, nomina il professionista incaricato eventualmente indicato dalle parti e, su richiesta di quest'ultimo, nomina un esperto estimatore. Quando risulta che una delle parti di cui al primo comma non ha sottoscritto il ricorso, il professionista incaricato rimette gli atti al giudice che, con decreto, dichiara inammissibile la domanda e ordina la cancellazione della relativa trascrizione. Il decreto è reclamabile a norma dell'articolo 739. Il professionista incaricato designato, sentite le parti e gli eventuali creditori iscritti o aventi causa da uno dei partecipanti che hanno acquistato diritti sull'immobile a norma dell'articolo 1113 del codice civile, nel termine assegnato nel decreto di nomina predispone il progetto di divisione o dispone la vendita dei beni non comodamente divisibili e da' avviso alle parti e agli altri interessati del progetto o della vendita. Alla vendita dei beni si applicano, in quanto compatibili, le disposizioni relative al professionista delegato di cui al Libro terzo, Titolo II, Capo IV, Sezione III, § 3-bis. Entro trenta giorni dal versamento del prezzo il professionista incaricato predispone il progetto di divisione e ne da' avviso alle parti e agli altri interessati. Ciascuna delle parti o degli altri interessati puo' ricorrere al Tribunale nel termine perentorio di trenta giorni dalla ricezione dell'avviso per opporsi alla vendita di beni o contestare il progetto di divisione. Sull'opposizione il giudice procede secondo le disposizioni di cui al Libro quarto, Titolo I, Capo III bis; non si applicano quelle di cui ai commi secondo e terzo dell'articolo 702-ter. Se l'opposizione è accolta il giudice dà le disposizioni necessarie per la prosecuzione delle operazioni divisionali e rimette le parti avanti al professionista incaricato. Decorso il termine di cui al quarto comma senza che sia stata proposta opposizione, il professionista incaricato deposita in cancelleria il progetto con la prova degli avvisi effettuati. Il giudice dichiara esecutivo il progetto con decreto e rimette gli atti al professionista incaricato per gli adempimenti successivi.”

E’ uno strumento processuale nuovo che consente di pervenire alla divisione dei beni in comproprietà evitando di ricorrere al tradizionale processo contenzioso davanti al giudice civile.
La nuova procedura disciplinata all’art. 791-bis è caratterizzata da brevità rispetto alla procedura ordinaria.
Quando sussiste accordo tra le parti, ossia non sussistono contestazioni sul diritto alla divisione né sulle quote o altre questioni pregiudiziali, le parti interessate possono domandare congiuntamente al tribunale competente per territorio la nomina di un notaio ovvero di un avvocato aventi sede nel circondario a cui demandare le operazioni di divisione.
I soggetti legittimati a presentare domanda congiunta di divisione ex art. 791 bis sono gli eredi, i condomini, gli eventuali creditori e aventi causa che hanno notificato o trascritto l’opposizione alla divisione.
L’atto processuale è rappresentato da un ricorso congiunto, che viene depositato presso il Tribunale competente, con il quale si chiede la nomina di un professionista per le operazioni di divisione (notaio o avvocato).
Se la domanda ha ad oggetto beni immobili, il ricorso deve essere trascritto a norma dell’articolo 2646 c.c. La nuova procedura prevede che il giudice seguendo il procedimento camerale ex art. 737 c.p.c., con decreto, nomini il notaio eventualmente indicato dalle parti e, su richiesta di quest’ultimo, nomina un esperto estimatore.
Il professionista incaricato, sentite le parti e gli eventuali creditori iscritti o aventi causa da uno dei partecipanti che hanno acquistato diritti sull’immobile a norma dell’art. 1113 c.c., predispone il progetto di divisione o dispone la vendita dei beni non comodamente divisibili entro il termine assegnato nel decreto di nomina. Avvisa quindi le parti e gli altri interessati del progetto o della vendita.
Alle parti e agli altri interessati è concesso un termine di trenta giorni perché possano ricorrere al Tribunale competente per opporsi al progetto di divisione o alla vendita dei beni oggetto di divisione.
Detto termine ha natura perentoria e decorre dalla ricezione dell’avviso di progetto o di vendita.

Ove invece entro il termine dei trenta giorni non vengono sollevate contestazioni il professionista incaricato deposita il progetto con la prova degli avvisi; segue quindi il decreto con cui il giudice dichiara esecutivo il progetto e con cui rimette gli atti al professionista incaricato per gli adempimenti successivi.

 

 

giovedì 3 marzo 2016

UNIONI CIVILI E CONVIVENZE DI FATTO ISTRUZIONI PER L'USO - ASPETTANDO GODOT


Il disegno di legge Cirinnà è una proposta che per la prima volta in Italia riconosce diritti e doveri delle coppie omosessuali che vogliono unirsi civilmente e delle coppie eterosessuali e omosessuali che non vogliono sposarsi, ma solo registrare la loro convivenza.

In attesa della conferma alla Camera ecco alcuni chiarimenti sul disegno di legge approvato al Senato.

L’UNIONE CIVILE:

Definisce il rapporto tra due persone maggiorenni, dello stesso sesso, che vogliano organizzare la loro vita in comune.

La legge inserisce nel diritto di famiglia un nuovo istituto specifico per le coppie omosessuali, chiamandolo “unione civile”, diverso dal matrimonio regolato dall’articolo 29 della costituzione, ma che si può equiparare a quest’ultimo per diritti e doveri previsti.

Per stipulare un’unione civile, le due persone devono essere maggiorenni e recarsi con due testimoni da un ufficiale di stato civile, il quale provvede alla registrazione. Le due persone che hanno contratto l’unione civile devono dichiarare il regime patrimoniale vogliono (comunione legale o separazione dei beni), un indirizzo di residenza comune e possono assumere un cognome comune che può anche sostituire o affiancare quello da celibe o nubile.

Non possono contrarre l’unione civile:

- persone già sposate o che hanno già contratto un’unione civile;

- persone a cui è stata riconosciuta un’infermità mentale o persone che tra loro sono parenti.

Come nel matrimonio, le parti acquistano gli stessi diritti e assumono gli stessi doveri: hanno l'obbligo reciproco all'assistenza morale e materiale, alla coabitazione ed entrambi sono tenuti a contribuire ai bisogni comuni, in base alle proprie possibilità; entrambi concordano l'indirizzo della vita familiare e la residenza comune, esattamente come avviene per le coppie sposate; in assenza di indicazioni diverse, si applica la comunione dei beni.In caso di morte la parte dell’unione civile ancora in vita ha diritto all'eredità, alla pensione di reversibilità.

In merito alla cessazione dell’unione la stessa si scioglie quando le parti hanno manifestato anche disgiuntamente la volontà di scioglimento davanti all'ufficiale di stato civile. In tal caso la domanda di scioglimento dell’unione è proposta decorsi tre mesi dalla data di manifestazione di volontà di scioglimento dell’unione. Si fa presente sul punto che nel caso delle unioni civili ( diversamente dal matrimonio) è stato previsto un vero e proprio divorzio breve, senza previa separazione ed in tempi brevissimi. In questo punto le unioni civili rispetto al matrimonio sono davvero innovative!

In ogni modo si applicano allo scioglimento delle unioni le disposizioni in materia di divorzio, come espressamente richiamate dal disegno di legge, con la possibilità di vedere riconosciuto ad uno dei due partner il diritto di mantenimento, tenendo conto delle condizioni dei due uniti.

LE CONVIVENZE DI FATTO:

Con il termine convivenze di fatto, si fa riferimento a tutte le coppie formate da due persone maggiorenni (sia etero che omosessuali) non legate da vincoli giuridici ma da un legame affettivo e che possono regolare i propri rapporti patrimoniali attraverso un "contratto di convivenza".

Il fine di questa regolamentazione è quello di concedere alle coppie conviventi i diritti basilari per l’assistenza reciproca, riconoscendoli quindi come un’unione di fatto meritevole di tutela giuridica.

Il contenuto del contratto è sostanzialmente libero: le parti possono indicare i rispettivi obblighi e diritti come, ad esempio, le modalità di cooperazione e collaborazione ai bisogni della convivenza. Inoltre dovranno regolare il regime patrimoniale, optando per la comunione dei beni o la separazione. Inoltre potranno stabilire quanto dello stipendio va nella cassa comune o quali spese sostiene l’uno o l’altro dei conviventi. Si possono sottoscrivere in qualsiasi momento della convivenza e possono anche definire rapporti patrimoniali in caso di cessazione del rapporto, evitando discussioni e rivendicazioni al momento della rottura.

I conviventi assumono solo alcuni dei diritti e dei doveri riconosciuti alle coppie sposate: l'assistenza ospedaliera, penitenziaria e gli alimenti a fine convivenza (nel caso in cui uno dei due non sia in grado di provvedere al proprio mantenimento).

Inoltre:

se il proprietario della casa di comune residenza muore, il convivente ha diritto a continuare ad abitare nella stessa casa per due anni o per un periodo pari alla convivenza se superiore ai due anni e comunque non oltre i cinque anni;
se l'intestatario del contratto di affitto della casa di comune residenza muore o dovesse recedere dal contratto di locazione dalla casa di comune residenza, il convivente di fatto può succedere nel contratto;

se il convivente di fatto presta abitualmente la propria opera all’interno dell’impresa dell’altro convivente ha diritto ad una partecipazione agli utili dell’impresa familiare ed ai beni acquistati con essi, nonché agli incrementi dell’azienda, commisurata al lavoro prestato. Questo diritto non è valido invece se tra i conviventi vi sia un rapporto di società o di lavoro subordinato. In caso di morte di uno dei conviventi causato da un fatto illecito di un terzo, il superstite viene equiparato al coniuge nell’individuazione del danno risarcibile.

se la convivenza finisce ed uno dei coniugi si trova in uno stato di difficoltà economica, il giudice può inoltre stabilire che l’ex partner lo sostenga economicamente per un periodo proporzionale alla durata della convivenza.

Il contratto di convivenza si risolve per:
accordo delle parti;

recesso unilaterale;

matrimonio o unione civile tra i conviventi o tra un convivente ed altra persona;

morte di uno dei contraenti;

La risoluzione del contratto di convivenza può avvenire pertanto anche per volontà di uno solo dei due partner, volontà a cui l’altro non può opporsi.

Nel caso di rottura della convivenza non c’è l’obbligo di versare l’assegno di mantenimento, ma solo quello degli alimenti nel caso di stretta necessità economica del compagno e comunque per un periodo di tempo proporzionale alla durata della convivenza.

Nel caso di recesso unilaterale da un contratto di convivenza se la casa familiare è nella disponibilità esclusiva del recedente la dichiarazione di recesso a pena di nullità deve contenere il termine non inferiore a novanta giorni concesso al convivente per lasciare l’abitazione.

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Se il presente disegno legge dovesse venire confermato alla Camera le fattispecie “del vivere insieme” saranno varie e variopinte e qui riassunte:

il matrimonio: è la tradizionale unione tra un uomo e una donna, regolata dal codice civile e dalle leggi speciali sul diritto di famiglia.

le unioni civili: sono le unioni tra omosessuali. L’insieme dei diritti e dei doveri è molto simile alla tutela prevista per le coppie sposate se non per alcune differenze (come l’obbligo della fedeltà);

i contratti di convivenza: sono le unioni tra soggetti maggiorenni sia etero che omosessuali, ma che hanno preferito di non passare per il matrimonio tradizionale o per le unioni civili, predisponendo un contratto di convivenza che ha tutele inferiori rispetto al matrimonio o alle unioni civili ma che garantisce alcuni diritti e tutele.

Resta fermo che i soggetti conviventi sono liberi di scegliere se siglare o meno un contratto di convivenza, che quindi non costituisce un obbligo.

Aspettando Godot ……………………………

Per consulenze o chiarimenti scrivere al seguente indirizzo mail chiara.consani@virgilio.it