lunedì 30 giugno 2014

DIRITTO DEL LAVORO LA TRANSAZIONE


Somme corrisposte dal datore di lavoro al proprio dipendente in esecuzione di una transazione, conseguita al fine di evitare l’insorgere di una lite. Assoggettabilità a contribuzione degli importi corrisposti nell’ambito dell’accordo transattivo.

Con sentenza n. 9180 del 23 aprile 2014, la Cassazione ha affermato che di per se stesso il titolo transattivo attribuito dalle parti alla erogazione di una somma, finalizzata anche a prevenire una lite e senza alcun riconoscimento relativo all’intercorso rapporto di lavoro, non è idoneo ad escludere la pretesa contributiva dell’INPS. Alla base delle motivazioni ci sono alcuni ragionamenti che scaturiscono dai contenuti dell’art. 12 della legge n. 153/1969 che ricomprende nella natura dell’imponibile contributivo tutto ciò che il prestatore ha percepito in relazione al rapporto di lavoro. Sotto l’aspetto contributivo la nozione di retribuzione è molto ampia e tale da superare i confini della corrispettività, essendo escluse unicamente le erogazioni frutto di una causa diversa e distinta dal rapporto , nonché le voci riportate nell’ art. 12 della suddetta legge.

La Suprema Corte, ha preso le mosse dalla L. 153/1969 (art. 12) la quale dispone che “per la determinazione della base imponibile per il calcolo dei contributi di previdenza ed assistenza sociale, si considera retribuzione tutto ciò che il lavoratore riceve dal datore di lavoro in denaro o in natura, al lordo di qualsiasi ritenuta, in dipendenza del rapporto di lavoro”.

La norma è stata interpretata autenticamente dal D.L. 173/1988 (convertito in L. 291/1988) nel senso che “dalla retribuzione imponibile sono escluse anche le somme corrisposte in occasione della cessazione del rapporto di lavoro, al fine di incentivare l’esodo dei lavoratori”.

Dalla sopracitata disciplina legislativa consegue che affinché sia esclusa la debenza dell’obbligo contributivo occorre che risulti un titolo autonomo diverso e distinto dal rapporto di lavoro, che giustifichi la corresponsione della somma nell’ambito della transazione, a nulla rilevando una volontà negoziale che regoli in maniera diversa la obbligazione retributiva, ovvero risolva con un contratto di transazione la controversia insorta in ordine al rapporto di lavoro.

La Suprema Corte ha rilevato come gli accordi transattivi prendessero le mosse da pretese dei lavoratori collegate al rapporto di lavoro di talché restava ininfluente la volontà delle parti contraenti di escludere tale nesso, non potendo siffatta intenzione valere ad elidere gli effetti che la legge correla ad erogazioni comunque connesse al rapporto di lavoro.

Quanto alla volontà dichiarata dalle parti di attribuire la somma quale incentivo all’esodo, la Corte di Cassazione ha rilevato la ingiustificatezza di una elargizione finalizzata ad agevolare la fuoriuscita del dipendente dall’azienda, per un rapporto di lavoro già cessato al momento della pattuizione.

Pertanto alla luce di tale sentenza gli emolumenti elargiti ai lavoratori nell’ambito transattivo, anche a titolo di incentivo all’esodo, rientrano nell’ampio concetto di retribuzione imponibile ai fini contributivi, di cui alla L. 153/1969, e per l’effetto sono soggetti a contribuzione.

mercoledì 19 marzo 2014

DECRETO LEGISLATIVO 23/2011 LA PRONUNCIA DELLA CORTE COSTITUZIONALE SENTENZA 50/2014,


La Consulta cancella le sanzioni previste dall'articolo 3, commi 8 e 9, del decreto legislativo 23/2011 per i contratti in nero.

La Consulta ha dichiarato l'illegittimità costituzionale per eccesso di delega dell'art. 3, commi 8 e 9, del d.lgs. n. 23/2011, nella parte in cui prevedeva la possibilità del conduttore di registrare tardivamente il contratto di locazione “in nero”, ottenendo un “nuovo” contratto di durata quadriennale e con riduzione del canone d'affitto pari al triplo della rendita catastale dell'immobile. Una disciplina estesa anche alle ipotesi di contratto di locazione registrato con un canone inferiore a quello effettivo e di contratti di comodato

Tale norma così disponeva: “ Ai contratti di locazione degli immobili ad uso abitativo, comunque stipulati, che, ricorrendone i presupposti, non sono registrati entro il termine stabilito dalla legge, si applica la seguente disciplina:

a) la durata della locazione è stabilita in quattro anni a decorrere dalla data della registrazione, volontaria o d'ufficio;

b) al rinnovo si applica la disciplina di cui all'articolo 2, comma 1, della citata legge n. 431 del 1998;

c) a decorrere dalla registrazione il canone annuo di locazione è fissato in misura pari al triplo della rendita catastale, oltre l'adeguamento, dal secondo anno, in base al 75 per cento dell'aumento degli indici ISTAT dei prezzi al consumo per le famiglie degli impiegati ed operai. Se il contratto prevede un canone inferiore, si applica comunque il canone stabilito dalle parti.

La dichiarazione di incostituzionalità di una legge o di un atto avente forza di legge rende la norma inefficace ex tunc e, quindi, estende la sua invalidità a tutti i rapporti giuridici ancora pendenti al momento della decisione della corte, pertanto finiranno nel nulla i contratti che sono stati registrati dagli inquilini e dai funzionari del Fisco a partire dal 6 giugno 2011.

Gli inquilini che hanno denunciato all’agenzia delle entrate il contratto di locazione in nero dovranno  liberare l'abitazione, perché il contratto cadrà insieme alla norma di legge che lo prevedeva, inoltre il proprietario avrà diritto a un'indennità per l'arricchimento senza causa, e per indebita occupazione nel caso di ritardata consegna dell’immobile.

Per chiarimenti e consulenze scrivere alla seguente mail: chiara.consani@virgilio.it

venerdì 14 marzo 2014

Recesso unilaterale da contratto di locazione per crisi economica

Come noto, il recesso dai contratti di locazione degli immobili ad uso commerciale è disciplinato dagli ultimi due commi dell’art. 27 della legge n° 392 del 1978.

Tale legge prevede la facoltà delle parti di inserire nel contratto, clausole che diano la possibilità per il conduttore di poter recedere dal contratto, senza obbligo di motivazione, con un preavviso di mesi sei da effettuarsi a mezzo lettera raccomanda r.r..

Tuttavia, in assenza di una tale pattuizione, nel silenzio delle parti, l’ultimo comma dell’art. 27 prevede che il conduttore, solo per gravi motivi, possa recedere in qualsiasi momento dal contratto con preavviso di almeno sei mesi da comunicarsi sempre con lettera raccomandata r.r..

 Definire oggettivamente i “gravi motivi” è compito arduo, perché si offre la possibilità al Giudice del merito un ampia casistica di valutazione, che non sempre corrisponde con le desiderata delle parti.

La recente sentenza n° 549 del 17.01.2012 della Cassazione Civile, ha negato che la generica crisi economica eccepita, fosse “grave motivo” invocato per il recesso.

La Suprema Corte ha motivato sul punto, come i  gravi motivi debbano ricercarsi in fatti involontari, imprevedibili e sopravvenuti alla costituzione del rapporto contrattuale,  ed essere tali da rendere oltremodo gravosa per il conduttore, sotto il profilo economico, la prosecuzione della locazione.

In buona sostanza, poiché la legge n° 392/1978 tutela l’interesse di entrambe le parti alla prosecuzione del contratto, risulta necessario che la parte recedente giustifichi la richiesta chiarendo quali siano di fatto “gravi motivi” che come anzidetto debbono essere estranei, imprevedibili e sopravvenuti alla stipula del contratto.

Ora, pur essendo pacifico che la crisi economica che sta investendo il nostro paese ben possa essere considerata estranea (al rapporto), imprevedibile e sopravvenuta, tuttavia il locatore deve essere messo nella possibilità di contestare gli assunti di colui che intenderebbe esercitare il recesso, che pertanto non possono essere generici , né possono derivare da situazioni soggettive quali l’opportunità di continuare ad utilizzare l’immobile oggetto di locazione, o la riduzione del volume d’affari. Altrimenti il rischio d’impresa ricadrebbe sul locatore.

Quindi, secondo la Suprema Corte, la crisi economica è un motivo generico e vago al fine di legittimare il recesso, se sfornita da altri motivi oggettivamente imprevedibili e sopravvenuti alla stipula del contratto, ben evidenziati ed eccepiti, tali da rendere oggettivamente gravoso la continuazione del rapporto contrattuale, talché il locatore possa eventualmente contestarli e su di essi instaurare un vero e proprio contraddittorio.

 

Avv. Alberto Consani

mercoledì 5 febbraio 2014

Concordato “in bianco” e contratti pendenti

Il novellato art. 161 comma 6 l.fall. offre la possibilità per l’azienda in crisi, rectius l’imprenditore, di depositare al competente Tribunale un ricorso corredato da pochissimi dati essenziali, prenotativo di una vera e propria domanda di concordato.

La prassi ha definito tale istituto, nuovo per il nostro diritto fallimentare, come concordato “in bianco”,  “pre-concordato”, “domanda prenotativa” etc., che ha lo scopo di far emergere la crisi dell’azienda e tuttavia consente la cristallizzazione del patrimonio del debitore. In buona sostanza impedisce ai singoli creditori di iniziare o proseguire iniziative esecutive sui beni dell’impresa in difficoltà, nelle more della presentazione della domanda completa del piano concordatario che richiede tempo.

La legge, come anzidetto, impone l’obbligo del deposito degli ultimi tre bilanci, la rendicontazione periodica e l’impossibilità di presentazione della domanda stessa, ove l’imprenditore ne abbia già presentata un'altra nel biennio precedente.

L’argomento che oggi vado a focalizzare, è relativo alla sorte dei contratti pendenti ed in corso d’esecuzione nel concordato preventivo, così come regolato dall’art. 169 bis L. fall., ove gli stessi siano troppo onerosi per l’azienda in crisi.

Il medesimo art. 169 bis l.fall. permette infatti al debitore in concordato di domandare, o nel ricorso introduttivo, o successivamente allo stesso, l’autorizzazione al Tribunale ,per sciogliersi dai contratti in corso ed anche, eventualmente a sospenderne solo alcuni di essi.

Naturalmente è bene subito chiarire che la presentazione della domanda di concordato non è di per sé causa di risoluzione dei contratti in essere, talché il giudizio prognostico di convenienza per il loro scioglimento è demandato agli organi della procedura che valuteranno caso per caso nell’interesse esclusivo dei creditori.

Da ciò ne consegue come di norma, l’autorizzazione allo scioglimento dei contratti, possa essere valutata con favore ove si tratti di contratti particolarmente onerosi e non più necessari per il proseguimento dell’attività, specialmente ove questa avvenga in misura ridotta rispetto a quella dell’azienda in bonis, anche per ragioni di giro d’affari o per ridotta capacità finanziaria: cash flow.

L’art. 169 bis l.fall., delimita poi in modo ben preciso quali contratti non possano essere sciolti, evidenziando in primis, come siano esclusi i rapporti di lavoro subordinato.

Ciò chiarito, appare evidente come la disciplina di riferimento sia finalizzata all’interesse supremo del ceto creditorio. Tuttavia, rimane un quid juris: sarà possibile applicare tale normativa al concordato con riserva, c.d. “in bianco” o “prenotativo”, di cui abbiamo dato conto, posto che all’atto del deposito della domanda-ricorso, manca un preciso schema di risoluzione della crisi?

La giurisprudenza nel tempo ha ritenuto prevalentemente applicabile la norma di cui all’art. 169 bis l.fall. anche alla domanda con riserva od “in bianco”, osservando come la norma di cui all’articolo in questione richiami l’art. 161 l.fall. senza effettuare un distinguo fra la domanda c.d. “in bianco” e quella vera e propria, completa in buona sostanza in ogni sua parte, compreso il fatidico piano e nella quale l’imprenditore abbia “svelato” la propria scelta ai creditori, optando ad esempio per un concordato liquidatorio anziché per uno “in continuità”, posizioni evidentemente antitetiche fra di loro giacché uno prevede la cessazione dell’attività e l’altro, invece, la continuità o la sopravvivenza dell’azienda.

In questa direzione si sono infatti pronunciati alcuni Tribunali, chiedendo infatti al ricorrente di anticipare la tipologia del concordato prescelto. Al fine di offrire al Tribunale, ad agli organi della procedura, di valutare la convenienza nell’interesse dei creditori. Diverse, infatti, possono essere le convenienze per i creditori, come anzidetto, a secondo di quale via si prenda.

Altri Tribunali, invece, hanno ritenuto addirittura la norma non applicabile alla domanda di concordato “in bianco”, ad altri ancora propendono, al limite, per una sospensione dei contratti nella fase “pre-concordataria” e non per lo scioglimento.

La ratio di una tale duplice interpretazione è evidente. Da una parte si ritiene che la domanda prenotativa, produca solo effetti di conservazione del patrimonio del debitore, in attesa della valutazione di ammissibilità da parte del Tribunale, e pertanto nelle more non si possa stravolgere l’impresa che nello stesso tempo sarebbe tenuta anche al pagamento di un indennizzo. Dall’altra, la ratio è dettata da ragioni strettamente giuridiche: l’art. 169 bis. L. fall. non fa esplicito riferimento al ricorso ex art. 161 comma 6 l.fall., mentre tale richiamo è contenuto nell’art. 182 quinques.

In buona sostanza e concludendo, a parere dello scrivente pare logico propendere, nella fase “pre-concordataria”, cioè dopo aver presentato la domanda in bianco o contestualmente ad essa, nelle more del termine imposto dal Tribunale per la presentazione della domanda vera e propria e del relativo piano, per una eventuale richiesta al Tribunale di sospensione temporanea dei contratti più onerosi o non più essenziali per il proseguimento dell’attività, e solo alla presentazione del piano definitivo domandare invece, una volta esplicata la road-map concordataria, lo scioglimento dai contratti gravosi che comporterà, nella maggior parte dei casi la corresponsione di un equo indennizzo.

Avv. Alberto Consani