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giovedì 18 febbraio 2021
POLIZZE VITA – DESIGNAZIONE - SUCCESSIONE IURE PROPRIO
venerdì 12 febbraio 2021
EREDITÀ DIGITALE APPLE I-CLOUD PRIVACY E TUTELA POST-MORTEM
venerdì 31 luglio 2020
I FIGLI DELLE COPPIE DELLO STESSO SESSO
Mai più di oggi è evidente l’esigenza giuridica di garantire ai figli delle coppie dello stesso sesso la stabilità del rapporto con coloro che di fatto esercitano una funzione genitoriale nei loro confronti. In questi casi non si tratta di trovare un genitore per un bambino abbandonato ma di tutelare e coprire giuridicamente situazioni in cui un bambino ha già chi si occupa di lui, dove vi è già un “genitore di fatto” che è tuttavia privo di riconoscimento legale formale (sul “valore” dei legami genitoriali di fatto, cfr. legge 173 del 2015 e Corte Cost. n. 225 del 2016). Nel nostro ordinamento l'adozione ordinaria da parte di coppie formate da persone dello stesso sesso non è espressamente prevista. Il procedimento adottivo è riservato ai coniugi e non si estende alle parti dell'unione civile e neppure ai conviventi di fatto eterosessuali o omosessuali. Secondo l'interpretazione dominante in Giurisprudenza, ciascun partner dell'unione civile potrà esclusivamente adottare il figlio biologico dell'altro. In questi termini si è pronunciato da ultimo il Tribunale per i Minorenni di Bologna il 25 giugno 2020 sulla scorta del Tribunale per i Minorenni di Roma che con la sentenza 30 luglio 2014 (est. Cavallo) ha inaugurato una presa di posizione ermeneutica confermata (Trib. Minorenni Roma, 22 ottobre 2015, est. Cavallo; Trib. Minorenni Roma, 23 dicembre 2015, est. Cavallo), anche nel secondo grado. In particolare, secondo il giudice d’appello romano, «nell’ipotesi di minore concepito e cresciuto nell’ambito di una coppia dello stesso sesso, sussiste il diritto ad essere adottato dalla madre non biologica, secondo le disposizioni sulla adozione in casi particolari ex art. 44 lett. D della Legge 4 maggio 1983, n. 184, sussistendo, in ragione del rapporto genitoriale di fatto instauratosi fra il genitore sociale ed il minore, l’interesse concreto del minore al suo riconoscimento; la sussistenza di tale rapporto genitoriale di fatto e del conseguente superiore interesse al riconoscimento della bigenitorialità devono essere operate in concreto sulla base delle risultanze delle indagini psico-sociali» (Corte App. Roma, 23 dicembre 2015, Pres. Montaldi, est. Pagliari). La Corte di Cassazione con la Sentenza 26 maggio 2016 n. 12962, ai fini ermeneutici ritiene che anche le coppie dello stesso sesso possano procedere all’adozione dei rispettivi figli ai sensi dell'art. 44, comma 1°, lett. d, che tramite il rinvio alla impossibilità di procedere all'affidamento preadottivo, consente l'adozione anche qualora il minore non si trovi in stato di abbandono, in quanto vi sia almeno uno dei genitori che adempia ai doveri ed eserciti i diritti che connotano la responsabilità genitoriale ai sensi dell'art. 315-bis c.c. La scelta di privilegiare l'adozione a favore dei partners delle unioni civili nei confronti del figlio biologico dell'altra parte tramite l'art. 44, comma 1°, lett. d, qualora si sia realizzato tra l'aspirante adottante e l'adottando uno stabile rapporto corrispondente all'esercizio della responsabilità genitoriale, trova giustificazione nella tutela dell'interesse del minore espressamente previsto dall'art. 57, n. 2, l. n. 184 del 1983 . In sostanza quest'ultimo giustifica il compimento dell'adozione che risulta in concreto rivolto ad offrire la copertura giuridica ad una situazione di fatto in essere da anni. Si tratta quindi di garantire al minore la c.d. continuità affettiva, che costituisce una esigenza primaria avvertita dal legislatore anche nel corso degli ultimi interventi che hanno interessato il diritto di famiglia. Inoltre, l'adozione da parte di partners di unioni civili secondo le modalità delineate dall'art. 44, comma 1°, lett. d, l. n. 184 del 1983 consente di evitare qualsiasi discriminazione tra coppie conviventi eterosessuali e omosessuali . Tant'è che il disconoscimento per le seconde del diritto ad adottare sarebbe da ritenere contrario alla ratio legis, al dato costituzionale ed ai princìpi della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo. Da ultimo la legge Cirinnà n. 76 del 2016 ha eletto le coppie formate da persone dello stesso sesso al rango di “famiglia” così offrendo all’adozione in casi particolari, un substrato relazionale solido, sicuro, giuridicamente tutelato. La legge ha confermato poi l’orientamento della Cassazione inserendo la c.d. «clausola di salvaguardia nell’articolo 1 comma 20: “al solo fine di assicurare l’effettività della tutela dei diritti e il pieno adempimento degli obblighi derivanti dall’unione civile tra persone dello stesso sesso, le disposizioni che si riferiscono al matrimonio e le disposizioni contenenti le parole « coniuge », « coniugi » o termini equivalenti, ovunque ricorrono nelle leggi, negli atti aventi forza di legge, nei regolamenti nonché negli atti amministrativi e nei contratti collettivi, si applicano anche ad ognuna delle parti dell’unione civile tra persone dello stesso sesso. La disposizione di cui al periodo precedente non si applica alle norme del codice civile non richiamate espressamente nella presente legge, nonché alle disposizioni di cui alla legge 4 maggio 1983, n. 184. Resta fermo quanto previsto e consentito in materia di adozione dalle norme vigenti”. In questo modo, tale disposizione apre alla possibilità di un’applicazione alle unioni civili delle disposizioni in materia di adozioni, ma solo, per l’appunto, nei limiti del diritto vigente. Per una consulenza o parere non esitare a contattarmi avv.chiaraconsani@gmail.com
lunedì 13 luglio 2020
LA RESPONSABILITÀ PER DANNI DA FAUNA SELVATICA
Cassazione civile sez. III - 06/07/2020, n. 13848 Le questioni attengono alla titolarità, sul piano passivo del lato risarcitorio, delle conseguenze dei danni cagionati dalla fauna selvatica ed all’inquadramento della natura di detta responsabilità. Nella giurisprudenza della Corte di Cassazione sussistono orientamenti non sempre univoci. È stata oggetto di diverse pronunce la valutazione su un piano generale, se la responsabilità debba individuarsi ai sensi dell’art 2043 o sulla base dellla presunzione di colpa dell’art 2052 c.c. e se sia da ascrivere alle singole Regioni, ovvero alle loro Provincie o in altri enti che risultino, in concreto, coinvolti in ciascuna vicenda (ovvero quelli - e ciò, soprattutto, in relazione a danni verificatisi in occasione di incidenti stradali - proprietari della strada "teatro" del sinistro). Tale incertezza rende, pertanto, necessario un ripensamento dell'intera tematica, anche al fine di assicurare l'esatta osservanza e l'uniforme interpretazione della legge, e con esse l'unità del diritto oggettivo nazionale (come il R.D. 30 gennaio 1942, n. 12, art. 65, ovvero la legge sull'ordinamento giudiziario, richiede a questa Corte). La giurisprudenza della Corte di Cassazione ha ritenuto necessario un ripensamento del criterio di imputazione della responsabilità per i danni da fauna selvatici. A tal fine ha ricondotto detta responsabilità al regime previsto dall'art. 2052 c.c.. Infatti, l'art. 2052 c.c., non reca alcuna espressa menzione che limiti la sua applicazione ai soli animali domestici, ma fa riferimento, esclusivamente, a quelli suscettibili di "proprietà" o di "utilizzazione" da parte dell'uomo. La norma, inoltre, prescinde dalla sussistenza di una situazione di effettiva custodia dell'animale, come si desume, nuovamente, dal suo stesso tenore letterale, là dove prevede, espressamente, che la responsabilità del proprietario o dell'utilizzatore sussista sia che "l'animale fosse sotto la sua custodia, sia che fosse smarrito o fuggito". Il riferimento, dunque, alla proprietà e all'utilizzazione (quale relazione, come detto, dalla quale si trae una "utilitas" anche non patrimoniale), ha la funzione di individuare un criterio oggettivo di allocazione del la responsabilità in forza del quale, dei danni causati dall'animale, deve rispondere il soggetto che dallo stesso trae un beneficio, in sostanziale applicazione del principio "ubi commoda ibi et incommoda", con l'unica salvezza del caso fortuito. Che poi, in un simile caso, sussista un diritto di proprietà statale in relazione ad alcune specie di animali selvatici (precisamente, quelle oggetto della tutela di cui alla citata L. n. 157 del 1992), è conseguenza che deriva tanto dalla loro appartenenza al patrimonio indisponibile dello Stato, quanto, soprattutto, dall'essere tale regime di proprietà pubblica espressamente disposto in funzione della tutela generale dell'ambiente e dell'ecosistema. Orbene, poichè tale funzione si realizza, come visto, mediante l'attribuzione alle Regioni di specifiche competenze normative e amministrative, nonchè di indirizzo, coordinamento e controllo (non escluso il potere sostitutivo) sugli altri enti, titolari di più circoscritte funzioni amministrative nello stesso ambito, è in capo alle Regioni che va imputata la responsabilità, ai sensi dell'art. 2052 c.c.. Applicando il criterio oggettivo di cui all'art. 2052 c.c., la Cassazione ritiene che il preteso danneggiato dovrà allegare e dimostrare che il pregiudizio lamentato sia stato causato dall'animale selvatico. In particolare, andrà provata la dinamica del sinistro, nonché il nesso causale tra la condotta dell'animale e l'evento dannoso subito, oltre che l'appartenenza dell'animale stesso a una delle specie oggetto della tutela di cui alla legge n. 157/1992, o, comunque, che si tratti di animale selvatico rientrante nel patrimonio indisponibile dello Stato. In presenza di danni derivanti da incidenti stradali che abbiano coinvolto veicoli e animali selvatici, non sarà sufficiente la sola dimostrazione della presenza dell'animale sulla carreggiata, e dell'impatto tra lo stesso d il veicolo. Il danneggiato, oltre a provare che la condotta dell'animale sia stata la "causa" dell'evento dannoso, sarà onerato, ex art. 2054, comma 1, c.c. della prova di avere fatto tutto il possibile per evitare il danno, cioè di avere, nella specie, adottato ogni opportuna cautela nella propria condotta di guida.
mercoledì 8 luglio 2020
Cassazione Civile Sentenza n. 8459/2020 - CAMPIONI BIOLOGICI – PRIVACY – ACCERTAMENTO PATERNITA’
La Cassazione ha chiarito che in sede civile e precisamente in un giudizio di accertamento della paternità sono utilizzabili i campioni biologici consegnati dalle Aziende Ospedaliere al Ctu incaricato, senza che sussista alcuna violazione della privacy, stante la prevalenza dell'interesse giudiziario. Infondata pertanto la contestazione sull'acquisizione dei vetrini con i campioni biologici presso le Aziende ospedaliere, che secondo il ricorrente, una volta cessato il trattamento "avrebbero dovuto essere distrutti, e non potevano essere ceduti dalle strutture sanitarie." Le controversie aventi ad oggetto i diritti dei privati non richiedono infatti le stesse garanzie richieste per il processo penale. In sede civile inoltre il giudice non incontra il limite delle prove tipiche, potendo utilizzare anche prove atipiche, la cui rilevanza dipende da una valutazione del magistrato. Esclusa quindi la possibilità di applicare la regola della inutilizzabilità della prova prevista per il processo penale in quello civile, la Cassazione chiarisce che sul diritto alla privacy del soggetto prevale "il trattamento dei dati personali qualora - effettuato per ragioni di giustizia - per tale intendendosi i trattamenti di dati personali direttamente correlati alla trattazione giudiziaria di affari e controversie (art. 47 Dlgs n. 196/2003 nel testo anteriore alla abrogazione disposta con il dlgs n. 101/2018.)" Anche il regolamento europeo n. 679/2016 ammette una deroga al limite della privacy e al trattamento dei dati personali se è necessario "accertare, esercitare o difendere un diritto in sede giudiziaria o ogniqualvolta le autorità giurisdizionali esercitino le loro funzioni giurisdizionali." Pertanto, fermo restando il principio secondo cui rimane precluso l'accesso a quelle prove la cui acquisizione concreti una diretta lesione di interessi costituzionalmente tutelati riferibili alla parte contro cui la prova viene utilizzata, la conservazione dei dati personali, compreso il vetrino che contiene il campione biologico con le indicazioni idonee a identificare il soggetto a cui appartiene, è giustificata nel momento in cui emergono finalità istituzionali dell'ente pubblico, come nel caso di specie, ossia l'impiego giudiziario dei dati biologici. Disposizioni che trovano conferma anche nel regolamento europeo 679/2016. Dalla complessa normativa sulla Privacy emerge che anche la "conservazione" del dato personale (tale dovendo configurarsi anche il vetrino contenente il campione biologico in quanto risulti corredato da indicazioni atte alla identificazione del soggetto cui appartiene) rientra nelle operazioni di trattamento e può, quindi, trovare giustificazione rispetto alle finalità istituzionali dell'ente pubblico, laddove queste prevedano, appunto, forme obbligatorie ex lege di archiviazione dei dati in funzione del perseguimento di interessi pubblici prevalenti, quali - ad esempio - l'impiego giudiziario del campione biologico, ovvero qualora la conservazione venga effettuata per fini scientifici o statistici. Ne segue che un automatico obbligo di distruzione del dato non è configurabile in capo al titolare del trattamento laddove il termine della conservazione sia correlato alle predette finalità istituzionali, come nel caso in esame in cui il cd. "materiale di archivio campionato" (blocchetti in paraffina e vetrini) venga a costituire oggetto di specifico obbligo, imposto alle Aziende ospedaliere, relativo alla conservazione dei referti e delle cartelle cliniche (cfr. Linee guida sulla "tracciabilità, raccolta, trasporto, conservazione e archiviazione di cellule e tessuti per indagini diagnostiche di anatomia patologica" elaborate dal Ministero della Salute Consiglio Superiore di Sanità - maggio 2015) e sia previsto uno specifico obbligo di legge alla conservazione per dieci anni dei campioni biologici riferibili a pazienti deceduti (cfr. L. 30 marzo 2001, n. 130, art. 3, comma 1, lett. h). La consegna dei vetrini da parte delle aziende ospedaliere deve quindi qualificarsi come adempimento alle prescrizioni contenute nel provvedimento giudiziario che ha conferito l'incarico al Ctu di acquisire anche "informazioni" presso terzi ai sensi dell'art. 194 c.p.c.
lunedì 15 giugno 2020
Dichiarazione di successione - deposito telematico
LA
DICHIARAZIONE DI SUCCESSIONE
Per ottenere l’intestazione in
proprio favore degli immobili ereditari e lo smobilizzo delle somme depositate
nei conti correnti del de cuius si devono prima pagare allo Stato le
tasse di successione.
Queste tasse vengono pagate tramite
la presentazione della dichiarazione di successione.
La dichiarazione di successione
deve essere presentata dagli eredi, dai chiamati all'eredità, dai legatari
entro 12 mesi dalla data di apertura della successione che coincide,
generalmente, con la data del decesso del contribuente.
Il chiamato non è erede finché
non accetta l’eredità ma l’obbligo di presentare la dichiarazione di
successione ricade su di lui sin da subito a meno che non rinunci espressamente
all’eredità con atto pubblico ricevuto dal notaio o dal cancelliere del
Tribunale.
La nuova dichiarazione di
successione e domanda di volture catastali deve essere presentata esclusivamente
in via telematica con l’ausilio di professionisti competenti e abilitati al
servizio da parte dell’Agenzia delle Entrate.
Se più persone sono obbligate
alla presentazione della dichiarazione è sufficiente presentarne una sola.
Contribuenti esonerati
Non c'è obbligo di dichiarazione
se l'eredità è devoluta al coniuge e ai parenti in linea retta del defunto e
l'attivo ereditario ha un valore non superiore a 100.000 euro e non comprende
beni immobili o diritti reali immobiliari. Queste condizioni possono venire a
mancare per effetto di sopravvenienze ereditarie.
Imu
Coloro che hanno presentato la
dichiarazione di successione in cui sono indicati beni immobili non devono
presentare la dichiarazione Imu (Imposta municipale propria). Saranno gli
stessi uffici dell’Agenzia delle Entrate, competenti a ricevere la dichiarazione
di successione, a trasmetterne copia al Comune in cui sono ubicati gli
immobili.
Autoliquidazione imposta
immobili
Quando nell’attivo ereditario è
presente un immobile, prima di presentare la dichiarazione di successione occorre
autoliquidare le imposte ipotecaria, catastale, di bollo, la tassa ipotecaria e
i tributi speciali (per esempio, per le formalità ipotecarie).
Il pagamento delle somme dovute e
calcolate in autoliquidazione avviene con addebito su un conto aperto presso un
intermediario della riscossione - convenzionato con l'Agenzia delle Entrate - e
intestato al dichiarante oppure al soggetto incaricato della trasmissione
telematica, identificati dal relativo codice fiscale. Per questo, quando si
compila la dichiarazione vanno indicati il codice Iban del conto sul quale
addebitare le somme dovute e il codice fiscale dell’intestatario del conto
corrente.
Il versamento dell'imposta
di successione
L’imposta di successione
liquidata dall’ufficio territoriale competente sulla base della dichiarazione
presentata può essere pagata anche a rate, con queste modalità:
• almeno il 20% dell’importo deve
essere versato entro sessanta giorni dalla notifica dell’avviso di liquidazione
• la parte restante, è versata in
otto rate trimestrali (dodici, per importi superiori a ventimila euro), sulle
quali sono dovuti gli interessi calcolati dal primo giorno successivo al
pagamento della tranche iniziale. Le rate scadono l'ultimo giorno di ciascun
trimestre.
La rateazione non è ammessa per
importi inferiori a 1.000 euro.
Ritardo nella presentazione
della dichiarazione di successione
Decorso il termine di dodici
mesi, l’Agenzia delle Entrate può procedere d’ufficio all’accertamento
dell’attivo ereditario e alla auto-liquidazione delle imposte a carico degli
eredi. Una volta che è stato notificato l’accertamento, gli eredi non potranno
più avvalersi del ravvedimento operoso e si vedranno costretti a pagare oltre a
quanto dovuto e agli interessi di mora anche le sanzioni amministrative che
possono andare dal 120 al 240 per cento dell’imposta liquidata d’ufficio.
Nel caso di ritardo nella
presentazione della dichiarazione di successione, e sempre che non sia già
intervenuto l’accertamento del fisco, agli eredi è concesso di procedere con il
cosiddetto ravvedimento operoso; con il quale oltre il pagamento di quanto già
dovuto per la presentazione della dichiarazione di successione, si procederà al
pagamento di interessi di mora, che variano a seconda del ritardo accumulato.
Per il pagamento delle imposte e
delle relative sanzioni è riconosciuto allo Stato un privilegio speciale per la
riscossione coattiva, la cui forza è tale da prevalere in sede di riparto del
ricavato della vendita dei beni pignorati anche sulle ipoteche preesistenti.
Lo Studio Legale Consani è
abilitato alla presentazione delle dichiarazioni di successione in tutta Italia
tramite il canale telematico dell’Agenzia delle Entrate.
Siamo a vostra disposizione
per una consulenza e preventivo.
Non esitate a contattarci
chiara.consani@studioconsani.eu