martedì 21 giugno 2011

POSTE ITALIANE: VIA LIBERA AL RIMBORSO PER BLACK OUT!!!


Poste Italiane ha incontrato le associazioni di consumatori ed ha definito, d’intesa con loro, modalità e tempi per la presentazione delle domande di conciliazione per il rimborso a favore dei cittadini che hanno subito danni a causa dei problemi informatici avvenuti nei primi giorni di giugno negli uffici postali.

La procedura di conciliazione sarà gratuita. L’azienda ha confermato ai rappresentanti dei consumatori la propria volontà di riconoscere un rimborso a tutti coloro che abbiano subito un danno documentabile tra il 1° e  il 10 giugno.

I cittadini interessati potranno richiedere il rimborso a partire dal 1° luglio fino al 31 dicembre prossimi consegnando le domande direttamente negli uffici postali o presso le sedi delle poste italiane. I moduli saranno a disposizione negli uffici postali, presso le sedi e potranno essere scaricati dal sito delle Poste. Le richieste saranno poi valutate caso per caso al tavolo di Conciliazione che sarà composto da un rappresentante dell’azienda e dal rappresentante dell’associazione scelta dal cliente.

Per informazioni e assistenza contattaci.

IL COGNOME: VERSO LA PARITÀ TRA MADRE E PADRE?


Il figlio legittimo sino ad oggi assume nel nostro ordinamento il cognome del padre. Non vi è alcuna norma giuridica che lo preveda espressamente, ma esso è divenuto principio giuridico generale e consolidato nel nostro ordinamento.

L’apertura verso la possibilità di attribuire al figlio legittimo il cognome della madre o il doppio cognome si è avuta con la ratifica da parte dell’Italia del Trattato di Lisbona.

Il trattato di Lisbona vieta ogni forma di discriminazione tra uomini e donne.
Conseguentemente non è più giustificabile una disparità di trattamento in tema di cognome.
L’Italia, come tutti i 27 stati membri, ha  il dovere di uniformarsi ai principi fondamentali della Carta dei diritti Ue.

La Cassazione n 23934/2008:

IL CASO:
Il caso del quale è stata investita la Suprema Corte riguardava due genitori che, in totale accordo, avevano chiesto di attribuire al proprio figlio il cognome della madre al posto di quello del padre scritto nell’atto di nascita.

Il tribunale e la Corte d’appello di Milano avevano respinto la richiesta. E allora i giudici della Cassazione hanno risposto ricordando che oggi, dopo la ratifica del trattato di Lisbona (in cui, tra le altre cose, si afferma il diritto al rispetto della vita privata e familiare e la parità tra uomini e donne, nonchè ogni discriminazione fondata sul sesso) "si dovrebbe aprire la strada all’applicazione diretta delle norme del trattato stesso e di quelle alle quali il trattato fa rinvio e, comunque, al controllo di costituzionalità che, anche nei rapporti tra diritto interno e diritto comunitario, non può essere escluso". Corte di Cassazione, Sezione I Civile, Ordinanza 10 marzo - 22 settembre 2008, n. 23934.

CONCLUSIONI:
In attesa di una normativa ad hoc già oggi si può aggiungere al proprio cognome paterno quello della madre.

Il principio di tendenziale stabilità del cognome, presente nel nostro ordinamento, non implica l’assoluta assenza di deroghe alla regola della riconoscibilità dell’individuo attraverso il solo cognome paterno per cui, in presenza di valide ragioni, è possibile aggiungere al cognome del padre anche quello della madre, salvo scoprire che la trafila burocratica è così complicata da scoraggiare chiunque.

La richiesta deve essere motivata e corredata dell'assenso dei parenti di entrambi i genitori fino al quarto grado di parentela. L’istanza va portata in Prefettura e di qui inoltrata al Ministero dell'Interno. Se il Ministero prende in considerazione la richiesta se meritevole, con decreto autorizza il richiedente a far affiggere la domanda all'Albo Pretorio del comune di nascita e dell'attuale residenza dello stesso richiedente, invitando chiunque voglia opporsi a farlo entro 30 giorni.
Si da atto che richiedente deve far modificare tutti i documenti - compresi diplomi, lauree.

Se sei interessato ad aggiungere il cognome materno a tuo figlio non esitare a contattarmi via e-mail.


SI VEDANO LE RECENTI MODIFICHE AL DPR 396/2000 DEL GOVERNO MONTI AVENTI EFFICACIA DECORSI 60 GIORNI DALLA PUBBLICAZIONE DEL DECRETO NELLA GAZZETTA UFFICIALE.
PER MAGGIORI APPROFONDIMENTI SI VEDA IL POST: NUOVE NORME PER IL CAMBIO NOME E COGNOME.





giovedì 12 maggio 2011

LA CONVIVENZA MORE UXORIO E IL CONTRATTO DI CONVIVENZA:


LA CONVIVENZA MORE UXORIO:
In Italia, la giurisprudenza di legittimità ha affermato che la convivenza more uxorio, tra persone in stato libero, non costituisce causa di illiceità e, quindi, di nullità di un contratto attributivo di diritti patrimoniali collegato a detta relazione. La giurisprudenza ritiene che tale convivenza, ancorché non disciplinata dalla legge, non contrasta né con norme imperative, non esistendo norme di tale natura che la vietino, né con l’ordine pubblico, né con il buon costume.

La convivenza è secondo la giurisprudenza, tutelata dall’articolo 2 della Costituzione come “formazione sociale” all’interno della quale si svolge la personalità dell’individuo.

Il fatto di propendere per una convivenza piuttosto che per un matrimonio, spesso risiede in una scelta consapevole e ponderata delle parti, diretta proprio ad evitare di sottomettersi alle norme giuridiche previste in materia di matrimonio.

QUADRO NORMATIVO:
Non esiste una legge che disciplini in modo organico e sistematico la famiglia di fatto e, tutte le norme applicabili sono o contenute all’interno di leggi o in sezioni dei codici dedicate ad altri istituti, in particolare:
1) l’art. 6, L. 27.7.1978 n. 392 (sulle locazioni di immobili urbani), dichiarato incostituzionale (sent. C.Cost. 7.4.1988, n. 404), nella parte in cui non prevedeva, tra gli aventi diritto alla prosecuzione del rapporto locativo dopo la morte del titolare, anche il convivente more uxorio, nonché nella parte in cui non prevedeva la successione nel contratto al conduttore che avesse cessato la convivenza, a favore del già convivente quando sussiste prole.
2) l’art. 45 della L. 4.5.1983, n.184 (Disciplina dell’ adozione e dell’ affidamento dei minori), sostituito dall’ art. 26 L. n. 149/2001, in cui si sancisce l’ammissibilità dell’ adozione da parte della coppia non coniugata qualora non sia praticabile l’ affidamento preadottivo;
6) l’ art. 317 bis c.c., il quale attribuisce ai genitori naturali conviventi l’ esercizio congiunto della potestà parentale sui figli, sancendo in siffatto modo la rilevanza sociale del fenomeno della convivenza di fatto;
7) l’ art. 6, 4° co., L. 184/1983, sostituito dall’ art. 6 L. n. 149/2001, che tiene conto della convivenza stabile e continuativa che ha preceduto il matrimonio per determinare l’ idoneità della coppia all’adozione.

LA FILLIAZIONE IN STATO DI CONVIVENZA:
La mancata celebrazione del matrimonio non incide sui diritti spettanti ai figli nati dai genitori non coniugati i quali, per espressa disposizione di legge, sono equiparati in tutto e per tutto ai figli nati da coppie coniugate.
Di conseguenza la distinzione tra figli naturali e figli legittimi non ha più ragione di esistere. L’equiparazione dei diritti significa, d’altro canto, equiparazione dei doveri a carico dei genitori nei confronti della prole rispetto agli obblighi dei genitori coniugati.

Rileva altresì sottolineare come l’autonomia negoziale delle parti non possa derogare ai diritti indisponibili, in particolare la disciplina relativa all’affidamento dei figli, all’educazione e al mantenimento degli stessi, la quale è completamente sottratta all’autonomia negoziale delle parti.
Pertanto qualunque tipo di clausola che le parti intendessero inserire in un contratto di convivenza, diretta a disciplinare tale materia, sarebbe priva di effetto o addirittura nulla, ove scaturisse da tale clausola un pregiudizio potenziale o effettivo per i figli o emergesse un contrasto con disposizioni dettate a tutela dei minori.

CONVIVENZA E DIRITTI EREDITARI:
Non vi è alcuna norma che attribuisce diritti ereditari in favore del convivente superstite.
I conviventi, salvo i diritti in favore dei legittimari (in assenza di matrimonio i legittimari sono i figli ed in assenza di figli gli ascendenti), hanno la piena libertà di nominare erede l’altro convivente mediante la redazione di un testamento all’interno del quale, venga disposto che una quota di eredità (o anche tutta, ove non siano lesi i diritti di soggetti legittimari), sia destinata al convivente superstite. 
Le disposizioni ereditarie non possono essere inserire nel contratto di convivenza ma, dovranno essere oggetto di uno specifico testamento redatto nelle forme prescritte dal codice civile onde evitare la sanzione di nullità dei patti successori.

IL CONTRATTO DI CONVIVENZA PROFILI SOSTANZIALI:

Il “CONTRATTO DI CONVIVENZA” non è l’accordo con cui due persone si impegnano a convivere more uxorio. Ogni vincolo di carattere personale, proprio perché privo del requisito della patrimonialità, NON è IDONEO, a costituire «prestazione» ai sensi dell’art. 1174 c.c., ed a essere dedotto in contratto, ex art. 1321 c.c.
In particolare:
1)   il dovere di fedeltà:
Oltre a non avere il carattere della patrimonialità, non sarebbe ammissibile per l’impossibilità di prevedere una sanzione in caso di inadempimento e per il contrasto di una siffatta obbligazione, con principi di rango superiore, anche sotto il profilo Costituzionale, tra cui il diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero e la propria libertà sessuale;
2)   l’obbligo di coabitazione:
Pur essendo uno dei presupposti ed elementi essenziali della convivenza, non potrebbe essere previsto all’interno di un contratto quale obbligo specifico perché tale clausola si porrebbe in contratto con diritti di rango Costituzionale tra cui quello relativo alla libertà di circolazione e soggiorno (articolo 16). Oltretutto, la coabitazione non può essere inserita quale obbligo specifico, in quanto essa rappresenta uno dei requisiti essenziali del contratto, in mancanza o al venir meno della quale, la convivenza si scioglie. 

Si tratta più precisamente di intese di contenuto patrimoniale al fine di regolare i rapporti economici dei conviventi, sottoponendo a regole prefissate la soluzione degli eventuali problemi che potrebbero insorgere durante la convivenza.

La meritevolezza di tali contratti atipici si riconduce all’intento di evitare liti future e di fornire un minimo di sicurezza economica al partner «debole». .
La causa del contratto di convivenza risiede nello scambio delle vicendevoli promesse di adempiere le reciproche obbligazioni naturali.

Il contratto di convivenza pertanto consente di regolarizzare le questioni economiche e patrimoniali del rapporto, anche per il caso di rottura del legame o di scomparsa prematura di uno dei partner. Queste disposizioni sono spesso orientate nell’assicurare al convivente più debole una forma di assistenza anche successivamente al venir meno della convivenza Si tratta di una forma assistenziale ritenuta meritevole di tutela dal nostro ordinamento, anche in virtù del vincolo di solidarietà che ha unito due soggetti per un lungo periodo di tempo.

Possono stipulare il contratto le coppie di non coniugati che abbiano intenzione di intraprendere un rapporto stabile e duraturo di convivenza.

Il contratto di convivenza, in particolare, ha ad oggetto:

1)   obblighi che le parti si assumono in costanza di convivenza.
Questo genere di disposizioni è necessario affinché si possa configurare un contratto di convivenza.
-       la scelta e le spese per l'abitazione comune;
-       la disciplina dei doni e delle altre liberalità;
-       l'inventario, il godimento, la disponibilità e l'amministrazione dei beni comuni;
-       i diritti acquistati in regime di convivenza;

2) obblighi che le parti assumono reciprocamente relativamente ed in previsione dell’ipotesi futura ed incerta che la convivenza cesserà
-       le incombenze e i reciprochi diritti in caso di cessazione della convivenza;
-       la disciplina relativa alla abitazione. È bene specificare a quale membro della coppia verrà assegnata la casa in caso di separazione.

Le ragioni che inducono sempre più persone a convenire contratti di convivenza sono molteplici, in particolare:
- per condividere con chiarezza e lealtà i momenti, le difficoltà e le esigenze comuni;
- per evitare spiacevoli problemi in caso di cessazione della convivenza;

DIFETTI DEL CONTRATTO DI CONVIVENZA:
Il difetto maggiore di questo strumento, resta l’inefficacia come vincolo davanti al giudice.
Infatti, se uno dei conviventi non rispetta i termini dell’accordo, l’altro non ha strumenti giuridici che permettano di obbligare al rispetto dei termini di tale contratto privato.
In particolare rileva altresì l’inopponibilità del vincolo nei confronti dei terzi, specie nel caso di disciplina relativa al regime degli acquisti durante la convivenza.

LA FORMA DEL CONTRATTO:
La maggior parte dei contratti di convivenza vengono redatti per forma scritta. Resta comunque necessaria ai fini della prova del contratto la apposizione di una data certa, resa tale o con la notifica reciproca del contratto o attraverso la stipula del contratto nella forma della scrittura privata autenticata innanzi ad un notaio.

LA DURATA DEL CONTRATTO:
La durata del contratto può essere a tempo determinato o indeterminato. Diversamente la durata della convivenza, la quale non può essere convenzionalmente determinata nel contratto, può essere più breve o più lunga della durata contratto.
Si da atto che mentre è possibile far cessare unilateralmente in ogni momento la convivenza, per quanto riguarda il contratto se esso è a tempo determinato non sarà possibile un recesso unilaterale (a meno che non siano previste specifiche ipotesi di recesso o risoluzione). Inoltre il contratto, spesso dispone anche per il periodo successivo alla convivenza e pertanto, difficilmente coincidono i termini di durata del contratto e della convivenza.

E’ opportuno ribadire che non potrebbe mai ipotizzarsi una clausola che preveda una durata determinata della convivenza né una condizione risolutiva della stessa, mentre è ipotizzabile un obbligo a carico delle parti, nascente in occasione della cessazione della convivenza e con una durata prestabilita.

IL CONTENUTO DEL CONTRATTO DI CONVIVENZA:
- ACQUISTO DI BENI IN COMUNE
Nell’ambito della coppia di fatto, le parti potranno impegnarsi ad acquistare in futuro, eventuali e determinati beni, in regime di comunione ordinaria, stabilendo se del caso, quote diverse di comproprietà. Ogni obbligazione in tal senso, avrà  efficacia obbligatoria e non reale. Pertanto a differenza di quanto avviene per gli acquisti effettuati dai coniugi in regime di comunione legale, l’acquisto del diritto di proprietà non avverrà automaticamente in capo ad entrambi soggetti per il solo fatto di aver stipulato l’atto di acquisto ma, sarà necessario l’intervento di entrambi i partner all’atto di acquisto ed apposita dichiarazione espressa, attraverso la quale, ognuno dei partner acquisterà una quota del bene in regime di comunione ordinaria.
Le parti possono altresì statuire sulle modalità di esercizio dei diritti sui beni acquistati in comune e sulla sorte di tali beni al momento del venir meno della convivenza. Sarà sufficiente inserire tali disposizioni all’interno del contratto di convivenza, il quale come tutti i contratti ha forza di legge tra le parti.

- PARTECIPAZIONE DI CIASCUNA DELLE PARTI ALLE SPESE ORDINARIE E STRAORDINARIE
E’ opportuno che i conviventi indichino nel contratto la misura della partecipazione di ciascuno alle spese ordinarie e straordinarie, in base alle proprie capacità di reddito e sostanze e che, venga anche valutato ai fini della distribuzione degli “sforzi” familiari l’apporto di lavoro domestico prestato dal coniuge non lavoratore. La coppia può aprire un conto corrente bancario cointestato, ove ciascuno verserà nella misura concordata parte dei propri redditi, destinata alle spese comuni.
Si da atto che mentre l’art 143 c.c. prevede che i coniugi provvedano ai bisogni della famiglia in relazione alle proprie sostanze (e quindi proporzionalmente), lo stesso principio non vige per le coppie di fatto che, nell’ambito della loro autonomia negoziale sono libere di prevedere obblighi reciproci di assistenza e di mantenimento anche non proporzionali alle proprie sostanze e capacità reddituali.


- SULLE SANZIONI PECUNIARIE IN CASO DI VIOLAZIONE DI OBBLIGAZIONI AVENTI CARATTERE PATRIMONIALE
Le parti possono altresì inserire nel contratto eventuali clausole penali in caso di mancato rispetto delle obbligazioni contrattuali patrimoniali, le quali siano reciproche e non in contrasto con norme inderogabili di legge o non incidano su diritti di natura indisponibile.

Una disposizione che preveda una penale a carico del convivente che pone fine alla relazione prima di una determinata data è nulla in quanto, determina una grave menomazione delle libertà della persona oltre alla mancanza del requisito della patrimonialità, necessario affinché un’obbligazione possa essere dedotta in un contratto.
Anche per l’obbligo di fedeltà non si ammette la previsione di una sanzione pecuniaria derivante dalla sua inosservanza, proprio in virtù della non disponibilità del diritto alla libertà sessuale e della natura non patrimoniale del diritto.


- LE DISPOSIZIONI IN MATERIA DI ABITAZIONE “FAMILIARE”
Le fattispecie che si possono verificare sono le più svariate, in particolare:

-       contratto di locazione di casa abitativa intestato ad entrambi i conviventi;

-       acquisto di un appartamento in regime di comproprietà stabilendo se del caso, anche quote differenti di proprietà;

-       se l’abitazione è già in proprietà esclusiva ad uno dei partner:
stipula di un contratto di comodato, non in esclusiva, dell’abitazione a favore dell’altro partner. In tal senso essi possono stabilire altresì che, in caso di cessazione della convivenza l’abitazione possa essere concessa in uso all’altro partner (normalmente il partner più debole economicamente). In questo caso, si configura un ulteriore contratto di comodato ma in esclusiva, sottoposto a condizione sospensiva della cessazione della convivenza. Tale disposizione, è assolutamente ammissibile in quanto è diretta, in un’ottica solidaristica, che dovrebbe sempre ispirare un’unione affettiva, alla tutela del partner più debole (ovviamente è opportuno nell’interesse di entrambi stabilire una durata prestabilita del contratto di comodato).

Se non è stipulato alcun contratto di comodato e la casa appartiene ad uno dei partner in via esclusiva e non ci sono figli è palese che, al momento della cessazione della convivenza il contratto (non scritto) di comodato tra il partner proprietario e quello non proprietario, si risolva automaticamente (e ciò sia per l’avverarsi della tacita condizione risolutiva della cessazione della convivenza e anche per la scadenza della durata non espressa del contratto, ravvisabile nella durata della stessa convivenza). Nel caso di risoluzione a qualsiasi titolo verificatasi, il partner già ospite assumerà la posizione di occupante senza titolo.

-       se l’abitazione è in proprietà di un terzo (spesso i genitori di uno dei partner);
anche in tal caso si configura l’opportunità di stipulare un contratto di comodato nei confronti della coppia.

SE VUOI CHIEDERE UNA CONSULENZA PER LA STIPULA DI UN CONTRATTO DI CONVIVENZA CONTATTA IL NOSTRO STUDIO CHIARA.CONSANI@VIRGILIO.IT

lunedì 2 maggio 2011

LA TUTELA DEGLI IMMOBILI DA COSTRUIRE DLGS 122/2005 SI APPLICA SOLO SE è STATO RICHIESTO IL RELATIVO PERMESSO DI COSTRUIRE:


La Corte di Cassazione ha affrontato la questione relativa alla applicazione della normativa a tutela degli acquirenti di immobili da costruire introdotta con il Decreto Legislativo n 122/2005.  In particolare il caso di specie riguarda un contratto preliminare di immobile da costruire venduto sulla carta per il quale non era stato richiesto il relativo permesso di costruire.

Secondo la Cassazione l’applicazione della normativa in esame ha senso in quanto il preliminare abbia ad oggetto un edificio per il quale, nel momento in cui viene stipulato il contratto, sia già stato richiesto il permesso di costruire, mentre sarebbe priva di ratio là dove, appunto, l'edificio oggetto della contrattazione sia soltanto progettato "sulla carta", prima della richiesta del permesso.

"Sussiste, in conclusione, l'error in iudicando denunciato dalla ricorrente. Poiché, infatti, al momento della stipulazione del preliminare l'immobile da costruire era esistente soltanto "sulla carta", ma non era ancora stato neppure richiesto il permesso di costruire o presentata la denuncia di inizio di attività, l'immobile negoziato non rientra tra quelli «oggetto del presente decreto» (per "usare l'espressione contenuta nell'incipit dell'art. 6, comma 1), perché non ricade nell'intervallo temporale che consente di intenderlo "da costruire" ai fini dell'applicazione della normativa introdotta dal d.lgs. n. 122 del 2005. Alla Corte d'appello era pertanto precluso, versandosi al di fuori dell'ambito oggettivo di operatività del decreto legislativo, interrogarsi sulle conseguenze derivanti dall'inosservanza della norma (art. 6, comma 1, lettera i) che, con riguardo al contenuto minimo del contratto avente ad oggetto un immobile da costruire, prescrive che esso «deve contenere ... gli estremi del permesso di costruire o della sua richiesta se non ancora rilasciato, nonché di ogni altro titolo, denuncia o provvedimento abilitativo alla costruzione»".

(Corte di Cassazione - Sezione Seconda Civile, Sentenza 10 marzo 2011, n.5749)

giovedì 28 aprile 2011

EQUITALIA IPOTECA LEGALE E FONDO PATRIMONIALE:


IL QUESITO:
- Fondo patrimoniale stipulato nel 2008,
- Separazione (consensuale/giudiziale) con figli minori, il giudice assegna la casa ai figli.
- Equitalia iscrive ipoteca sull’immobile facente parte del fondo patrimoniale,
- I debiti con Equitalia sono stati fatti prima della costituzione del fondo patrimoniale e l'immobile è stato acquistato nel 2008 con mutuo bancario.


PARERE:

L'art. 167 c.c. stabilisce che ciascuno o ambedue i coniugi, per atto pubblico, o un terzo, anche per testamento, possono costituire un fondo patrimoniale, destinando determinati beni, immobili, o mobili iscritti nei pubblici registri, o titoli di credito - vincolati attraverso la nominatività con annotazione del vincolo o in altro modo idoneo - a far fronte ai bisogni della famiglia.

Dalla costituzione del fondo patrimoniale deriva un vincolo di destinazione a far fronte ai bisogni della famiglia.
Questa destinazione dei beni del fondo viene assicurata attraverso l’art 160 c.c. il quale pone il divieto alla espropriabilità da parte dei creditori per debiti che il creditore conosceva essere stati contratti per bisogni estranei alla famigli.

Quanto ai crediti in favore dell’agente della riscossione (Equitalia), la Corte di Cassazione (Sezione V, sentenza 7/7/2009, n. 15862), ha disposto che Equitalia può agire esecutivamente sui beni del contribuente soggetti alla costituzione di fondo patrimoniale ai sensi dell’articolo 170 del codice civile, solo quando sia accertato che il credito erariale sia riconducibile alle necessità della famiglia.


E' invece irrilevante secondo la giurisprudenza qualsiasi indagine riguardo alla anteriorità del credito rispetto alla costituzione del fondo, in quanto l'art. 170 c.c. non limita il divieto di esecuzione forzata ai soli crediti (estranei ai bisogni della famiglia) sorti successivamente alla costituzione del fondo, ma estende la sua efficacia anche ai crediti sorti anteriormente, salva la possibilità per il creditore, ricorrendone i presupposti, di agire in revocatoria ordinaria (Cass. 3251/96, 4933/05).

Per quanto sopra esposto al fine di verificare la legittimità dell’iscrizione ipotecaria da parte dell’ente competente su beni costituiti in fondo patrimoniale per debito erariale è necessario verificare che vi sia una oggettiva destinazione dei debiti assunti alle esigenze familiari e, quindi, il criterio identificativo va ricercato non nella natura dell’obbligazione, ma nella relazione esistente fra il fatto generatore di esse e i bisogni della famiglia.

Possono considerarsi obbligazioni tributarie contratte per le necessità della famiglia l'I.C.I. o la TARSU, di contrario possono considerarsi estranee ai suoi bisogni l'IVA o le imposte su redditi di impresa o lavoro autonomo.

La consapevolezza del creditore della estraneità del debito alle esigenze familiari deve costituire oggetto di prova da parte di colui che si oppone all’espropriazione forzata. 

Se si tratta di debiti anteriori alla costituzione del fondo, si da atto che il creditore potrebbe esperire l’azione revocatoria fallimentare (entro due anni dalla costituzione del fondo) oppure l’azione revocatoria ordinaria (entro cinque anni, ricorrendone i presupposti), sostenendo che il fondo è stato costituito fraudolentemente per sottrarre i beni all’esecuzione forzata. Si richiama a tal fine la più recente Sentenza n. 38925 del 7 ottobre 2009, Sez. III penale, dove è affermato il principio per il quale la stipulazione di atti, ivi compresa la costituzione di un fondo patrimoniale privo di giustificazione, nella prossimità temporale della notificazione di avvisi di accertamento o di atti impositivi deve ritenersi chiaramente sospetta.
Il fondo, quindi, non può essere utilizzato per sottrarsi al pagamento di debiti già contratti. Un simile tentativo, infatti, potrebbe avere rilevanza penale, soprattutto se si tratta di debiti fiscali o nei confronti dello Stato.


Pertanto concludendo in presenza di fondo patrimoniale “legittimo”, ovvero non artificiosamente posto in essere per sottrarre beni al fisco si dovrà verificare se il debito fiscale è sorto per la soddisfazione dei beni della famiglia e solo allora il fondo sarà aggredibile.

Nel caso contrario, ovvero del fondo artatamente costituito per sottrarre patrimonio alle pretese erariali, ci si confronterà con tutte le problematiche di cui al Dlgs 74/00  in tema di sottrazione fraudolenta al pagamento delle imposte.

La circostanza che vi siano figli minori non sembra a parer mio rilevante.
Ciò che rileva infatti è la natura del debito erariale come sottolineato meglio in precedenza.


Quanto alla circostanza relativa alla separazione dei coniugi si da atto come la separazione ex art 150 c.c. non sia causa di cessazione del fondo patrimoniale. Pertanto fino a che non sia passata in giudicato la sentenza di divorzio il fondo patrimoniale è da intendersi ancora esistente e illegittima ogni iscrizione ipotecaria in forza di debito estraneo ai bisogni della famiglia.


domenica 24 aprile 2011

ILLEGITTIMA LA TASSA DI CONCESSIONE GOVERNATIVA PER CELLULARI:


NORMATIVA:
La tassa di concessione governativa è stata introdotta dal D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 641 “Disciplina delle tasse sulle concessioni governative”.

Questa assurda tassa era infatti originariamente diretta alle società telefoniche, che dovevano pagarla per l'utilizzo delle frequenze. Il Governo successivamente stabilì che dovesse essere pagata dai titolari di un contratto di abbonamento, in quanto il cellulare era un "bene di lusso".

Con il D.M. 28 dicembre 1995 è stata estesa anche ai contratti di telefonia mobile in abbonamento: 5,16 euro mensili per i privati e 12,91 euro mensili per i clienti business, anche se il costo era deducibile all’80% nella dichiarazione dei redditi.

Nel 2003 con l’entrata in vigore del D.Lgs. n. 259/2003 “Codice delle comunicazioni elettroniche” la tassa in commento è stata abolita, ma solo sulla carta visto che le compagnie in tutti questi anni hanno continuato ad applicarla.

L’ILLEGITTIMITà DELLA TASSA:
La Commissione Tributaria del Veneto con la Sentenza n. 04/16/11 ha dichiarato la sostanziale illegittimità della tassa di concessione sui servizi di telefonia mobile, non trovando più applicazione la previsione di cui all’articolo 21 della Tariffa allegata al dpr n. 641/1972.
Viene ribadita l’abrogazione della normativa che regolamentava la tassa, per effetto dell’entrata in vigore del Codice delle telecomunicazioni elettroniche (D.Lgs. n. 259/2003) recante disposizioni in materia di liberalizzazione dei servizi di comunicazione.

Secondo il dispositivo emanato, infatti, il D.Lgs n. 259/2003 pur non cancellando esplicitamente l'articolo 21 della tariffa allegata al D.P.R. n. 641/1972, che include tra gli atti soggetti alla tassa governativa le licenze per l'impiego per il servizio radiomobile pubblico terrestre di comunicazione, abroga implicitamente il contributo attraverso la privatizzazione del servizio. La privatizzazione del servizio radiomobile pubblico terrestre di comunicazione ha, infatti, segnato il passaggio dalla concessione della licenza da parte della pubblica amministrazione al contratto che presuppone una posizione di parità fra i contraenti.
Data tale nuova circostanza, secondo i giudici, viene eliminato il presupposto del tributo che poggiava su un rapporto concessionario di tipo pubblicistico.

Così per effetto di questa sentenza oggi ciascun abbonato può inviare alla propria compagnia telefonica una diffida a mezzo raccomandata A/R perché non applichi più tale tassa e chiedere all’Agenzia delle Entrate il rimborso per quanto indebitamente versato negli ultimi 3 anni, quindi fino ad un massimo di 185,76 euro in caso di utenza privata e di 464,76 in caso di utenza business.

L'articolo 13 del dpr n. 641/1972 stabilisce che il contribuente può chiedere la restituzione delle tasse di concessione governativa «erroneamente pagate entro il termine di decadenza di tre anni a decorrere dal giorno del pagamento o, in caso di rifiuto dell'atto sottoposto a tassa, dalla data della comunicazione del rifiuto stesso».
Considerando il termine triennale:
• per i contratti di utenza privata la tassa governativa è pari ad euro 5,16 euro al mese moltiplicato per 36 mesi (per un massimo di 185.76 euro di rimborso),
• per i contratti intestati invece a titolari di partita iva, l’imposta è pari ad euro 12.91 al mese per lo stesso periodo triennale (per un massimo di 464.76 euro di rimborso)

Il rimborso, può essere richiesto da chiunque abbia sottoscritto negli ultimi anni un abbonamento per i servizi offerti dagli operatori di telefonia, può arrivare sino a 476 euro per aziende ed enti locali, e a 186 euro per i privati.

Modalità di rimborso della tassa concessione governativa:

Occorre inoltrare idonea istanza di rimborso della tassa concessione governativa indebitamente versata, considerando che, in caso di esplicito rifiuto o di silenzio rifiuto, decorsi 90 giorni dalla presentazione della stessa, è possibile ricorrere alla commissione tributaria provinciale competente.

La domanda va inviata alla propria compagnia telefonica esclusivamente presso la sede legale a mezzo raccomandata A/R, allegando copia delle fatture e delle ricevute di pagamento.
Per interrompere il termine prescrizionale occorre inviare la stessa istanza anche presso l’Agenzia delle Entrate di competenza. Il documento, che dev’essere inviato come raccomandata con ricevuta di ritorno in copia anche alla stessa ADOC.


E’ necessario allegare copia delle fatture e delle ricevute di pagamento.


LA RISPOSTA DEL GOVERNO:

Le associazioni consumatori, in particolare l’Adoc e l’Aduc, si sono fatte promotrici di una campagna per la restituzione della tassa e soprattutto hanno ripetutamente chiesto al Governo di pronunciarsi per mettere la parola fine alla questione. Questa risposta è arrivata qualche giorno fa su un’interrogazione dell’onorevole Fluvi secondo cui “il nuovo codice delle comunicazioni elettroniche del 2003 ha apportato al settore rilevanti innovazioni nell'ambito di un processo di privatizzazione che ha avuto come principale conseguenza il passaggio dalla concessione al contratto, cioè ad uno strumento di diritto privato il quale presuppone una posizione di parità tra i contraenti". "Il codice delle comunicazioni elettroniche - continua l'interrogazione - sembrerebbe, pertanto, abrogare implicitamente tutta la normativa basata sul presupposto di un rapporto concessionario di tipo pubblicistico".
A questo il Governo ha replicato che, “secondo l'Agenzia delle Entrate, il decreto legislativo che ha introdotto il nuovo codice delle comunicazioni non ha operato alcuna abrogazione del regolamento del 1990 che, pertanto, deve ritenersi ancora in vigore”. L'Agenzia ritiene, pertanto, che la tassa sulle concessioni governative sia dovuta nelle ipotesi in cui venga rilasciato all'utente il documento attestante la sua condizione di abbonato. Da questo si nota che non sono state prese in considerazione le sentenze della Commissione Tributaria del Veneto che a gennaio 2011 ha stabilito l’illegittimità della tassa di concessione governativa per il servizio pubblico, nè tantomeno l’ultima della Commissione Tributaria dell’Umbria che ha ribadito la questione.
Il Governo indubbiamente teme dover rimborsare ai contribuenti gli importi relativi alle tasse di concessione governativa versate a partire dall'entrata in vigore del decreto legislativo del 2003  e pertanto prende tempo. Nel frattempo però le richieste di rimborso continuano ad arrivare alle compagnie telefoniche e all’Agenzia delle Entrate. Una situazione, questa, che però ha bisogno di essere chiarita al più presto per non entrare in quel vortice in cui il più debole paga sempre.


CONCLUSIONI:
La vicenda è ancora avvolta da dubbi. Riguardo, pertanto, alla possibilità di un effettivo rimborso della tassa governativa sui cellulari, resta ancora alta l’incertezza. In tal senso è opportuno attendere ancora qualche momento, prima di inviare la lettera di diffida alla compagnia telefonica.
Se avete notizie che possono essere utili non esitate a segnalarle, al fine di arrivare al più presto ad un punto fermo.

venerdì 15 aprile 2011

I DOPPI NOMI LA REGOLA DELLA VIRGOLA è STATA ABOLITA:



L’art. 6 del codice civile recita che ogni persona ha diritto al nome che le è per legge attribuito, nel nome si comprendono il prenome ed il cognome. Dalla lettura di tale norma emerge, che il diritto al nome è espressione inalienabile dell’identità personale dell’individuo.

Il nuovo ordinamento dello stato civile DPR 396/2000 ha inteso regolamentare analiticamente ed in modo innovativo alcune fattispecie che sotto la vigenza del r.d. 9 luglio 1939, n. 1238, avevano dato luogo a discordanti orientamenti e soluzioni di tipo pratico.

IL NOME PRIMA DEL DPR 396/2000:
Per quanto riguarda il nome, le vecchie regole prevedevano che fosse possibile dare più di un nome al bambino ma che, se i nomi erano separati da virgole, era possibile legalmente usare solo il primo.

Ad ESEMPIO:
-       se una persona era registrata come Tizio, Alberto negli atti poteva scrivere solo Tizio;
-       se una persona era registrata come Tizio Alberto (senza virgola) negli atti doveva per forza usare entrambi i nomi.

Tutto quello che è accaduto prima continua ad essere retto dalle norme precedenti, pertanto tutti coloro che sono nati prima del DPR 396/2000 ed hanno due prenomi con la virgola continueranno ad usare negli atti un unico nome.

IL NOME DOPO IL DPR 396/2000:  
L’art. 35 o.s.c. statuisce che “il nome imposto al bambino deve corrispondere al sesso e può essere composto da uno o da più elementi onomastici, anche separati, non superiori a tre” ed aggiunge che in quest'ultimo caso, tutti gli elementi del prenome dovranno essere riportati negli estratti e nei certificati rilasciati dall'ufficiale dello stato civile e dall'ufficiale di anagrafe.

A tale ultimo proposito, la presenza di virgole, trattini ed altro, è oggi del tutto ininfluente al fine della formazione dell’atto di nascita, tant’è che ove essa fosse stata inserita o lo sia nei nuovi atti formati dopo l’entrata in vigore del nuovo Regolamento, è del tutto improduttiva di qualunque effetto imposto.

La nuova regola in pratica ha abolito le virgole.

Quindi, dal 2000 in poi si ha un solo nome, che può essere composto anche da due o tre elementi, ma che in ogni caso va usato per intero.

ESEMPIO:
-       se una persona é registrata come Tizio Alberto o come Tizio, Alberto dovrà comunque firmare con entrambi i nomi.


SI VEDANO LE RECENTI MODIFICHE AL DPR 396/2000 DEL GOVERNO MONTI
AVENTI EFFICACIA DECORSI 60 GIORNI DALLA PUBBLICAZIONE DEL DECRETO NELLA GAZZETTA UFFICIALE.

PER MAGGIORI APPROFONDIMENTI SI VEDA IL POST: NUOVE NORME PER IL CAMBIO NOME E COGNOME.