lunedì 1 marzo 2021

La deducibilità dal reddito ai fini IRPEF dei canoni concessori ex art. 10 comma I lettera a Dpr n. 917/86

La Sentenza n. 203/2021 della Commissione tributaria regionale Toscana di Firenze ha statuito la deducibilità dal reddito ai fini IRPEF, dei canoni concessori ex art. 10 comma I lettera a Dpr n. 917/86 La sentenza in commento rappresenta una pietra miliare sul contenzioso avente ad oggetto la deducibilità dei canoni di concessione Comunale che ormai va avanti da anni tra i contribuenti e l’Agenzia delle Entrate di Viareggio. La vexata quaestio si basa su due assunti diametralmente opposti: - il contribuente ritiene deducibili dal reddito i canoni corrisposti al Comune, che rappresentano il corrispettivo annuale per mantenere in essere il diritto reale di superficie che consente di fare (o mantenere) una costruzione al di sopra del suolo di proprietà Comunale ex art. 952 c.c.; - l’Agenzia delle Entrate, invece, ritiene che il diritto del contribuente non sia un diritto reale, sebbene obbligatorio, non consentendo la deducibilità del canone ex art. 10 dpr. perché rientrante nella fattispecie di cui all’art. 70 dello stesso Dpr.917/86. Con la sentenza in parola la Commissione regionale fiorentina traccia un indirizzo molto netto sulla vicenda: -da una parte statuisce, senza mezzi termini, la realità dei diritti del concessionario tenuto conto della facoltà attribuita al concessionario di costruire opere nella zona assentita in concessione e di costituire su di esse ipoteca, principi già declinati dalla Suprema Corte di Cassazione ed anche dal TAR; -dall’altra, ha statuito, sempre in linea con la giurisprudenza della Suprema Corte di Cassazione, che il canone di concessione non costituisce il valore della costruzione, e cioè un entrata a titolo di capitale, bensì la facoltà di mantenere l’opera senza che essa acceda al suolo demaniale stabilendo che i canoni concessori, a prescindere dalla loro realità, abbiano natura di corrispettivo per la concessione del bene, sia quando dalla concessione derivino diritti assimilabili alla locazione, oppure diritti reali limitati quale il diritto di superficie. Ne consegue, in ogni caso, la detraibilità dei canoni ex art. 10 comma 1 lettera a) Dpr n. 917/86, in quanto i canoni costituiscono il presupposto logico giuridico ed economico del reddito derivante dal fabbricato, tenuto conto che la proprietà del fabbricato è condizionata all’esistenza del diritto di superficie che si perpetua mediante il pagamento del canone, quale condizione dell’esistenza stessa del reddito (gravante sul reddito degli immobili), reddito che fra l’altro deriva da contratto di locazione e non corrisponde alla rendita catastale. Per chiarimenti o pareri non esitare a contattarci avv.chiaraconsani@gmail.com Segui la pagina Studio Legale Consani e metti mi piace sarai aggiornato con novità giurisprudenziali e normative.

venerdì 19 febbraio 2021

DIVIETO DI LICENZIAMENTO FINO AL 31 MARZO 2021

La legge di Bilancio 2021 proroga fino al 31 marzo 2021 il divieto di licenziamento in scadenza il 31 gennaio 2021 previsto dall’articolo 12, commi 9 e 10 del decreto-legge n. 137/2020, cd. decreto Ristori, convertito, con modificazioni, dalla legge di conversione 18 dicembre 2020, n. 176. Attualmente lo stop ai licenziamenti è esteso a tutte le ipotesi di recesso giustificate da motivi estranei alla persona del lavoratore o a sue condotte extra-lavorative (tali sono i licenziamenti per giustificato motivo soggettivo o giusta causa). Il divieto riguarda tutti i datori di lavoro a prescindere dal requisito dimensionale e non è più dipendente dalla fruizione integrale degli ammortizzatori COVID-19. La violazione di tale divieto comporta la nullità del licenziamento e la reintegra del lavoratore. Senza attendere la fine del blocco, le aziende possono ricorrere a licenziamenti per giustificato motivo oggettivo nelle seguenti ipotesi: - dipendenti interessati dal recesso impiegati in un appalto e successivamente passati al nuovo appaltatore in forza di una norma di legge, contratto collettivo nazionale di lavoro ovvero clausola prevista all’interno del contratto di appalto, in virtù della quale si è obbligati a riassumere il personale in forza al momento del subentro; - fallimento, nel caso in cui non sia previsto l’esercizio provvisorio dell’attività di impresa ovvero ne venga decretata la cessazione; - cessazione definitiva dell’attività di impresa; - messa in liquidazione della società senza continuazione dell’attività (qualora non si possa configurare un trasferimento d’azienda o di un ramo della stessa); - accordo collettivo aziendale di incentivo alla risoluzione del rapporto di lavoro, concluso dalle organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative a livello nazionale. In questo caso i lavoratori che aderiscono all’accordo possono accedere all’indennità di disoccupazione NASPI, in presenza degli altri requisiti. Il divieto di licenziamento non interessa le ipotesi di licenziamento giustificate da motivi estranei all’attività produttiva ovvero all’organizzazione del lavoro. L’azienda potrà sempre risolve il contratto per ragioni attinenti le caratteristiche o la condotta del lavoratore interessato: Licenziamenti per giusta causa; Licenziamenti per giustificato motivo soggettivo; Licenziamenti per superamento del periodo di comporto; Licenziamenti intimati in periodo di prova o al termine dello stesso; Licenziamento riguardante il lavoratore domestico o il dirigente; Cessazione dell’apprendistato al termine del periodo formativo; Licenziamento per raggiunti limiti di età per la fruizione della pensione di vecchiaia; Licenziamento che interessa il socio di una cooperativa di produzione e lavoro, laddove preceduto dalla risoluzione dal rapporto associativo. Per una consulenza non esitare a contattarmi: avv.chiaraconsani@gmail.com

giovedì 18 febbraio 2021

ACQUISTARE UNA CASA ALL’ASTA

L’acquisto di un immobile all’asta può risultare conveniente ma può nascondere inconvenienti e sorprese che in concreto riducono l’appetibilità dell’investimento. Per questo è sempre meglio rivolgersi ad esperti per procedere all’acquisto tramite asta. Innanzi tutto bisogna visionare nella cancelleria del tribunale o presso il professionista incaricato i relativi documenti: l'avviso di vendita, che contiene le condizioni e i termini della vendita, una breve descrizione dell'immobile ed il prezzo base; la perizia di stima, redatta da un tecnico nominato dal giudice, che contiene una dettagliata descrizione dell'immobile: i dati catastali, la planimetria, lo stato di fatto, le eventuali irregolarità e la loro sanabilità, i vincoli, le servitù, i debiti e se l'immobile è libero od occupato. Un altro aspetto importante da considerare qualora si scelga di comprare casa all’asta, è quello legato alle modalità e tempistiche di pagamento. Per quel che riguarda l’accensione di un mutuo, sarà necessario organizzarsi per tempo, scegliendo un istituto di credito che preveda questo genere di erogazioni. Ad ogni modo, tuttavia, le tempistiche partono naturalmente dal momento in cui ci si aggiudica l’asta, dunque vengono calcolati dai 60 ai 90 giorni successivi per saldare il debito. Da un punto di vista di tassazione fiscale, invece, non ci sono particolari cambiamenti rispetto alle tassazioni standard di acquisto e si dovrà calcolare l’imposta di registro secondo le aliquote prima o seconda casa, a seconda se chi compra abbia o meno i requisiti. La base di calcolo è rappresentata dal valore catastale (in caso risulti più basso rispetto al prezzo di aggiudicazione) se si tratta di abitazione e se l’aggiudicatario è una persona fisica. Le cosiddette aste telematiche o miste ormai in tempi di Covid sono entrate a far parte a tutti gli effetti della consuetudine. Le offerte dovranno essere inviate in maniera telematica al portale unico del Ministero. L’asta sarà poi gestita da software creati da soggetti abilitati dal Ministero stesso. Per consulenze o chiarimenti scrivere al seguente indirizzo mail avv.chiaraconsani@gmail.com

POLIZZE VITA – DESIGNAZIONE - SUCCESSIONE IURE PROPRIO

Le polizze assicurative sulla vita si prestano ad essere utilizzate sia per la protezione del patrimonio (con un’importante funzione previdenziale), sia nell’ambito della pianificazione del passaggio generazionale e della successione in genere. In virtù della loro funzione previdenziale, le polizze sulla vita sono caratterizzate da impignorabilità e insequestrabilità. La legge dispone che le somme dovute dall’assicuratore al contraente o al beneficiario non possono essere sottoposte ad azione esecutiva o cautelare, dunque sono impignorabili ed insequestrabili. Sono però fatte salve, rispetto ai premi pagati, le disposizioni relative alla revocazione degli atti compiuti in pregiudizio dei creditori (azione revocatoria) e quelle relative alla collazione, all'imputazione e alla riduzione delle donazioni. (art. 1923 c.c.). I creditori del contraente possono, dunque, far valere i propri diritti (esercitando l’azione revocatoria, se ne ricorrono i presupposti) sulla somma dovuta dalla compagina assicuratrice soltanto fino all’importo dei premi pagati dal contraente, e non sull’intera somma liquidata. Anche ai fini di determinare l’eventuale lesione dei diritti di legittima, si deve tenere conto soltanto della somma dei premi pagati dal contraente, e non della somma che viene liquidata al beneficiario dalla compagnia assicuratrice. La giurisprudenza ha precisato che l’impignorabilità e insequestrabilità riguarda soltanto la disciplina civile e non la responsabilità penale, in presenza della quale è possibile il sequestro preventivo (si veda, per esempio, Cass. 6 maggio 2014, n. 18736, relativa a un ipotesi di evasione fiscale, e Cass. 2 maggio 2007, n. 16658). La Corte di Cassazione ritiene inoltre che l’impignorabilità ed insequestrabilità della polizza sulla vita si applichi anche in caso di fallimento (Cass. 31 marzo 2008, n. 8271). Un aspetto importante alle polizze vita ed alla designazione del beneficiario attiene all'interpretazione della clausola con cui il contraente di un'assicurazione sulla vita designa quali beneficiari i propri eredi legittimi. Non è chiaro, infatti, se il riferimento alle regole sulla devoluzione ereditaria assuma rilevanza solo ai fini dell'individuazione dei soggetti o anche ai fini della ripartizione tra loro della somma assicurata. Nelle polizze vita esistono fondamentalmente quattro parti: il contraente, l’assicurato (che spesso coincidono), il beneficiario e l’assicuratore. Com’è noto, poi, la polizza vita ha la natura di un contratto a favore di un terzo, ossia di un contratto nel quale il beneficiario ottiene per diritto proprio inter vivos l’indennità, sebbene la liquidazione avvenga solo successivamente alla morte dell’assicurato. È infine, pacifico che i beneficiari possano sempre essere modificati, salvo che il beneficio sia stato accettato e perciò sia irrevocabile Il contratto di assicurazione difetta di quell'elemento essenziale dei negozi a causa di morte che consiste nell'attribuzione di un quod superest appartenente al patrimonio del de cuius al quale, invece, restano estranee le somme assicurate, a prescindere dalla forma della designazione. Anche in caso di designazione testamentaria, infatti, a dispetto di quanto affermato dalla tesi più tradizionale, l'acquisto deve intendersi pur sempre come acquisto tra vivi, limitandosi in tal caso il testamento a veicolare una manifestazione di volontà priva di carattere attributivo Molto spesso i beneficiari vengono individuati con designazioni che richiamano categorie generiche, o per relazione, quali “eredi legittimi”. Da questa generica designazione potrebbe nascere dei problemi. 1 – Se dopo la stipula dell’assicurazione e la designazione generica in favore degli eredi legittimi procedo alla stipula di un testamento il beneficiario della polizza cambia? Il potere di revoca della designazione fatta nel contratto di assicurazione si può realizzare attraverso la specifica individuazione di un nuovo soggetto beneficiario compiuta con il contratto o con il testamento, ma in quest’ultimo caso dovrà contenere un esplicito riferimento alla modifica dei beneficiari della polizza stessa, altrimenti vale la prima generica individuazione fatta nei confronti degli eredi legittimi. In pratica il testamento successivo alla stipula della polizza non revoca automaticamente la designazione dei beneficiari nella polizza sostituendo gli eredi testamentari a quelli legittimi, ma occorre un espresso riferimento alla loro revoca, quali beneficiari della polizza, in quanto il diritto si è acquisito al momento della designazione, anche se la liquidazione avviene in momento successivo, ossia al momento della morte dell’assicurato. Per evitare rischi è opportuno, non solo revocare espressamente nel testamento la designazione fatta in polizza, ma indicare nominativamente i beneficiari, nonché i vari sostituti, in una sorta di rappresentazione volontaria e non legale (art.1412, 2 comma c.c.). 2 – Se indico genericamente quali beneficiari gli eredi legittimi come avviene la liquidazione della polizza? La generica designazione degli eredi legittimi senza l’esatta identificazione delle quote da liquidare a ciascun beneficiario, in quanto è discusso se la suddivisione debba avvenire in parti uguali, oppure secondo il criterio proporzionale indicato dalla legge per le quote attribuite al singolo erede. Ebbene la Corte di Cassazione precisa che “quando in un contratto di assicurazione sulla vita sia stato previsto per il caso di morte dello stipulante che l’indennizzo debba corrispondersi agli eredi tanto con formula generica, quanto e, a maggior ragione, con formulazione evocativa degli eredi testamentari o in mancanza degli eredi legittimi, tale clausola, sul piano della corretta applicazione delle norme di esegesi del contratto e, quindi, conforme a detta disposizione, dev’essere intesa sia nel senso che le parti abbiano voluto tramite dette espressioni individuare per relationem con riferimento al modo della successione effettivamente verificatosi negli eredi chi acquista i diritti nascenti dal contratto stipulato a loro favore (art. 1920, comma secondo e terzo, cod. civ.), sia nel senso di correlare l’attribuzione dell’indennizzo ai più soggetti così individuati come eredi in misura proporzionale alla quota in cui ciascuno è succeduto secondo la modalità di successione effettivamente verificatasi, dovendosi invece escludere che, per la mancata precisazione nella clausola contrattuale di uno specifico criterio di ripartizione che a quelle modalità di individuazione delle quote faccia riferimento, che le quote debbano essere dall’assicuratore liquidate in misura eguale”. In questo contesto, per evitare questi rischi o equivoci potrebbe essere opportuno indicare anche la misura della quota, precisando anche l’accrescimento qualora qualcuno non possa o non voglia profittarne. PER CHIARIMENTI E CONSULENZE SCRIVERE ALLA SEGUENTE MAIL: avv.chiaraconsani@gmail.com

venerdì 12 febbraio 2021

EREDITÀ DIGITALE APPLE I-CLOUD PRIVACY E TUTELA POST-MORTEM

Il Tribunale di Milano con una ordinanza emessa il 10 febbraio 2021 all’interno di un procedimento cautelare promosso ai sensi degli artt. 669 bis e 700 c.p.c. ha condannato la Apple Italia S.r.l. a fornire assistenza a due genitori per il recupero dei dati personali dagli account del figlio scomparso improvvisamente. I ricorrenti, eredi del figlio deceduto, avevano intenzione di recuperare i dati contenuti nel I-cloud ed ivi archiviati, consistenti in video, fotografie allo scopo di realizzare un progetto dedicato alla sua memoria. I genitori sono stati costretti a ricorrere al Tribunale perché la società Apple rifiutava loro tale accesso e comunicava che dopo un determinato periodo di inattività dell’account iCloud, la medesima proceda normalmente alla distruzione dei dati contenuti. PROFILI NORMATIVI: L’art 27 del Reg. 2016/679 c.d. “GDPR”, precisa che il regolamento non si applica ai dati personali delle persone decedute, lasciando tuttavia agli Stati Membri dell’Unione la possibilità di prevedere delle norme interne riguardanti il trattamento dei dati personali delle stesse. Sul punto, il decreto legislativo 10 agosto 2018, n. 101 ha introdotto una specifica disposizione nel Codice in materia di protezione dei dati, ossia l’art. 2-terdecies, la quale è dedicata al tema della tutela post-mortem e dell’accesso ai dati personali del defunto: “I diritti di cui agli articoli da 15 a 22 del Regolamento riferiti ai dati personali concernenti persone decedute possono essere esercitati da chi ha un interesse proprio, o agisce a tutela dell'interessato, in qualità di suo mandatario, o per ragioni familiari meritevoli di protezione (…) L'esercizio dei diritti di cui al comma 1 non è ammesso nei casi previsti dalla legge o quando, limitatamente all'offerta diretta di servizi della società dell'informazione, l'interessato lo ha espressamente vietato con dichiarazione scritta presentata al titolare del trattamento o a quest'ultimo comunicata”. Non risulta tuttavia chiarito dal legislatore se l’acquisto dei diritti dell’interessato deceduto sia un acquisto mortis causa oppure rappresenti una legittimazione iure proprio, limitandosi a prevedere quello che la più attenta dottrina ha qualificato in termini di “persistenza” dei diritti oltre la cessazione della vita della persona fisica interessata. Tale persistenza assume un rilievo preminente a livello dei rimedi giudizialmente esperibili. CONSIDERAZIONI: Sarà sempre più importante valutare il destino dei nostri dati anche tramite un testamento, in quanto, sui dati del defunto potrebbero sorgere criticità non solo di legittimazione all’esercizio dei diritti (si pensi che tali diritti siano in capo a più coeredi anche in contrapposizione tra di loro) ma anche in termini di definizione della normativa applicabile. Per una consulenza non esitare a contattarmi via mail avv.chiaraconsani@gmail.com

venerdì 31 luglio 2020

I FIGLI DELLE COPPIE DELLO STESSO SESSO

Mai più di oggi è evidente l’esigenza giuridica di garantire ai figli delle coppie dello stesso sesso la stabilità del rapporto con coloro che di fatto esercitano una funzione genitoriale nei loro confronti. In questi casi non si tratta di trovare un genitore per un bambino abbandonato ma di tutelare e coprire giuridicamente situazioni in cui un bambino ha già chi si occupa di lui, dove vi è già un “genitore di fatto” che è tuttavia privo di riconoscimento legale formale (sul “valore” dei legami genitoriali di fatto, cfr. legge 173 del 2015 e Corte Cost. n. 225 del 2016). Nel nostro ordinamento l'adozione ordinaria da parte di coppie formate da persone dello stesso sesso  non è espressamente prevista. Il procedimento adottivo è riservato ai coniugi e non si estende alle parti dell'unione civile e neppure ai conviventi di fatto eterosessuali o omosessuali. Secondo l'interpretazione dominante in Giurisprudenza, ciascun partner dell'unione civile potrà esclusivamente adottare il figlio biologico dell'altro. In questi termini si è pronunciato da ultimo il Tribunale per i Minorenni di Bologna il 25 giugno 2020 sulla scorta del Tribunale per i Minorenni di Roma che con la sentenza 30 luglio 2014 (est. Cavallo) ha inaugurato una presa di posizione ermeneutica confermata (Trib. Minorenni Roma, 22 ottobre 2015, est. Cavallo; Trib. Minorenni Roma, 23 dicembre 2015, est. Cavallo), anche nel secondo grado. In particolare, secondo il giudice d’appello romano, «nell’ipotesi di minore concepito e cresciuto nell’ambito di una coppia dello stesso sesso, sussiste il diritto ad essere adottato dalla madre non biologica, secondo le disposizioni sulla adozione in casi particolari ex art. 44 lett. D della Legge 4 maggio 1983, n. 184, sussistendo, in ragione del rapporto genitoriale di fatto instauratosi fra il genitore sociale ed il minore, l’interesse concreto del minore al suo riconoscimento; la sussistenza di tale rapporto genitoriale di fatto e del conseguente superiore interesse al riconoscimento della bigenitorialità devono essere operate in concreto sulla base delle risultanze delle indagini psico-sociali» (Corte App. Roma, 23 dicembre 2015, Pres. Montaldi, est. Pagliari). La Corte di Cassazione con la Sentenza 26 maggio 2016 n. 12962, ai fini ermeneutici ritiene che anche le coppie dello stesso sesso possano procedere all’adozione dei rispettivi figli ai sensi dell'art. 44, comma 1°, lett. d, che tramite il rinvio alla impossibilità di procedere all'affidamento preadottivo, consente l'adozione anche qualora il minore non si trovi in stato di abbandono, in quanto vi sia almeno uno dei genitori che adempia ai doveri ed eserciti i diritti che connotano la responsabilità genitoriale ai sensi dell'art. 315-bis c.c. La scelta di privilegiare l'adozione a favore dei partners delle unioni civili nei confronti del figlio biologico dell'altra parte tramite l'art. 44, comma 1°, lett. d, qualora si sia realizzato tra l'aspirante adottante e l'adottando uno stabile rapporto corrispondente all'esercizio della responsabilità genitoriale, trova giustificazione nella tutela dell'interesse del minore espressamente previsto dall'art. 57, n. 2, l. n. 184 del 1983 . In sostanza quest'ultimo giustifica il compimento dell'adozione che risulta in concreto rivolto ad offrire la copertura giuridica ad una situazione di fatto in essere da anni. Si tratta quindi di garantire al minore la c.d. continuità affettiva, che costituisce una esigenza primaria avvertita dal legislatore anche nel corso degli ultimi interventi che hanno interessato il diritto di famiglia. Inoltre, l'adozione da parte di partners di unioni civili secondo le modalità delineate dall'art. 44, comma 1°, lett. d, l. n. 184 del 1983 consente di evitare qualsiasi discriminazione tra coppie conviventi eterosessuali e omosessuali . Tant'è che il disconoscimento per le seconde del diritto ad adottare sarebbe da ritenere contrario alla ratio legis, al dato costituzionale ed ai princìpi della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo. Da ultimo la legge Cirinnà n. 76 del 2016 ha eletto le coppie formate da persone dello stesso sesso al rango di “famiglia” così offrendo all’adozione in casi particolari, un substrato relazionale solido, sicuro, giuridicamente tutelato. La legge ha confermato poi l’orientamento della Cassazione inserendo la c.d. «clausola di salvaguardia nell’articolo 1 comma 20: “al solo fine di assicurare l’effettività della tutela dei diritti e il pieno adempimento degli obblighi derivanti dall’unione civile tra persone dello stesso sesso, le disposizioni che si riferiscono al matrimonio e le disposizioni contenenti le parole « coniuge », « coniugi » o termini equivalenti, ovunque ricorrono nelle leggi, negli atti aventi forza di legge, nei regolamenti nonché negli atti amministrativi e nei contratti collettivi, si applicano anche ad ognuna delle parti dell’unione civile tra persone dello stesso sesso. La disposizione di cui al periodo precedente non si applica alle norme del codice civile non richiamate espressamente nella presente legge, nonché alle disposizioni di cui alla legge 4 maggio 1983, n. 184. Resta fermo quanto previsto e consentito in materia di adozione dalle norme vigenti”. In questo modo, tale disposizione apre alla possibilità di un’applicazione alle unioni civili delle disposizioni in materia di adozioni, ma solo, per l’appunto, nei limiti del diritto vigente. Per una consulenza o parere non esitare a contattarmi avv.chiaraconsani@gmail.com

lunedì 13 luglio 2020

LA RESPONSABILITÀ PER DANNI DA FAUNA SELVATICA

Cassazione civile sez. III - 06/07/2020, n. 13848 Le questioni attengono alla titolarità, sul piano passivo del lato risarcitorio, delle conseguenze dei danni cagionati dalla fauna selvatica ed all’inquadramento della natura di detta responsabilità. Nella giurisprudenza della Corte di Cassazione sussistono orientamenti non sempre univoci. È stata oggetto di diverse pronunce la valutazione su un piano generale, se la responsabilità debba individuarsi ai sensi dell’art 2043 o sulla base dellla presunzione di colpa dell’art 2052 c.c. e se sia da ascrivere alle singole Regioni, ovvero alle loro Provincie o in altri enti che risultino, in concreto, coinvolti in ciascuna vicenda (ovvero quelli - e ciò, soprattutto, in relazione a danni verificatisi in occasione di incidenti stradali - proprietari della strada "teatro" del sinistro). Tale incertezza rende, pertanto, necessario un ripensamento dell'intera tematica, anche al fine di assicurare l'esatta osservanza e l'uniforme interpretazione della legge, e con esse l'unità del diritto oggettivo nazionale (come il R.D. 30 gennaio 1942, n. 12, art. 65, ovvero la legge sull'ordinamento giudiziario, richiede a questa Corte). La giurisprudenza della Corte di Cassazione ha ritenuto necessario un ripensamento del criterio di imputazione della responsabilità per i danni da fauna selvatici. A tal fine ha ricondotto detta responsabilità al regime previsto dall'art. 2052 c.c.. Infatti, l'art. 2052 c.c., non reca alcuna espressa menzione che limiti la sua applicazione ai soli animali domestici, ma fa riferimento, esclusivamente, a quelli suscettibili di "proprietà" o di "utilizzazione" da parte dell'uomo. La norma, inoltre, prescinde dalla sussistenza di una situazione di effettiva custodia dell'animale, come si desume, nuovamente, dal suo stesso tenore letterale, là dove prevede, espressamente, che la responsabilità del proprietario o dell'utilizzatore sussista sia che "l'animale fosse sotto la sua custodia, sia che fosse smarrito o fuggito". Il riferimento, dunque, alla proprietà e all'utilizzazione (quale relazione, come detto, dalla quale si trae una "utilitas" anche non patrimoniale), ha la funzione di individuare un criterio oggettivo di allocazione del la responsabilità in forza del quale, dei danni causati dall'animale, deve rispondere il soggetto che dallo stesso trae un beneficio, in sostanziale applicazione del principio "ubi commoda ibi et incommoda", con l'unica salvezza del caso fortuito. Che poi, in un simile caso, sussista un diritto di proprietà statale in relazione ad alcune specie di animali selvatici (precisamente, quelle oggetto della tutela di cui alla citata L. n. 157 del 1992), è conseguenza che deriva tanto dalla loro appartenenza al patrimonio indisponibile dello Stato, quanto, soprattutto, dall'essere tale regime di proprietà pubblica espressamente disposto in funzione della tutela generale dell'ambiente e dell'ecosistema. Orbene, poichè tale funzione si realizza, come visto, mediante l'attribuzione alle Regioni di specifiche competenze normative e amministrative, nonchè di indirizzo, coordinamento e controllo (non escluso il potere sostitutivo) sugli altri enti, titolari di più circoscritte funzioni amministrative nello stesso ambito, è in capo alle Regioni che va imputata la responsabilità, ai sensi dell'art. 2052 c.c.. Applicando il criterio oggettivo di cui all'art. 2052 c.c., la Cassazione ritiene che il preteso danneggiato dovrà allegare e dimostrare che il pregiudizio lamentato sia stato causato dall'animale selvatico. In particolare, andrà provata la dinamica del sinistro, nonché il nesso causale tra la condotta dell'animale e l'evento dannoso subito, oltre che l'appartenenza dell'animale stesso a una delle specie oggetto della tutela di cui alla legge n. 157/1992, o, comunque, che si tratti di animale selvatico rientrante nel patrimonio indisponibile dello Stato. In presenza di danni derivanti da incidenti stradali che abbiano coinvolto veicoli e animali selvatici, non sarà sufficiente la sola dimostrazione della presenza dell'animale sulla carreggiata, e dell'impatto tra lo stesso d il veicolo. Il danneggiato, oltre a provare che la condotta dell'animale sia stata la "causa" dell'evento dannoso, sarà onerato, ex art. 2054, comma 1, c.c. della prova di avere fatto tutto il possibile per evitare il danno, cioè di avere, nella specie, adottato ogni opportuna cautela nella propria condotta di guida.