martedì 9 settembre 2014

MODIFICAZIONI DELLE DESTINAZIONI D'USO DEI BENI COMUNI


Art 1117 ter c.c. (Articolo aggiunto dall’art. 2, comma 1, L. 11 dicembre 2012, n. 220, a decorrere dal 17 giugno 2013, ai sensi di quanto disposto dall’art. 32, comma 1, della medesima legge n. 220/2012)

“1. Per soddisfare esigenze di interesse condominiale, l'assemblea, con un numero di voti che rappresenti i quattro quinti dei partecipanti al condominio e i quattro quinti del valore dell'edificio, può modificare la destinazione d'uso delle parti comuni.

2. La convocazione dell'assemblea deve essere affissa per non meno di trenta giorni consecutivi nei locali di maggior uso comune o negli spazi a tal fine destinati e deve effettuarsi mediante lettera raccomandata o equipollenti mezzi telematici, in modo da pervenire almeno venti giorni prima della data di convocazione.

3. La convocazione dell'assemblea, a pena di nullità, deve indicare le parti comuni oggetto della modificazione e la nuova destinazione d'uso.

4. La deliberazione deve contenere la dichiarazione espressa che sono stati effettuati gli adempimenti di cui ai precedenti commi.

5. Sono vietate le modificazioni delle destinazioni d'uso che possono recare pregiudizio alla stabilità o alla sicurezza del fabbricato o che ne alterano il decoro architettonico.”

La novella di cui all’art. 1117-ter comma 1 consente di modificare la destinazione d’uso delle parti comuni e, quindi, ammettendo un loro uso del tutto differente da quello originario.

Il legislatore, con questa norma, ha cercato di far trarre, ai condomini, la massima fruibilità ad alcune parti comuni, ponendo in ogni modo dei limiti molto rigorosi, ciò, in un ‘ottica di bilanciamento degli interessi dei singoli rispetto alla collettività di far parimenti uso del bene .

Con il nuovo art. 1117-ter c.c. è stata introdotta, una “proibitiva” maggioranza per le delibere e un procedimento di convocazione estremamente articolato.

Invero, si tratta di una maggioranza particolarmente qualificata e rigorosa, tanto da poter risultare di difficile conseguimento soprattutto in riferimento alle presenze normalmente ottenibili in assemblea.

LA TUTELA NEL CASO DI ABUSO DI UN CONDOMINO NELL’USO DELLE PARTI COMUNI

Art 1117 quater c.c. (Articolo aggiunto dall’art. 2, comma 1, L. 11 dicembre 2012, n. 220, a decorrere dal 17 giugno 2013, ai sensi di quanto disposto dall’art. 32, comma 1, della medesima legge n. 220/2012)

“In caso di attività contraria alla destinazione d’uso delle parti comuni o delle unità immobiliari di proprietà esclusiva, ogni condomino può diffidare l’amministratore affinché entro trenta giorni agisca per la tutela degli interessi comuni.

In mancanza dell’amministratore o se l’amministratore non provvede entro trenta giorni dalla diffida, ogni condomino può chiedere che il tribunale ne ordini la cessazione in via di urgenza, salvo in ogni caso il risarcimento del danno.

Il danno deve essere determinato tenendo conto degli incrementi di valore, degli investimenti compiuti e dei benefici ricavati da ciascun interessato, nonché della gravità della colpa e dell’esigenza di scoraggiare reiterazioni.”

 

In forza di tale norma in caso di attività che incidono negativamente e in modo sostanziale sulle destinazioni d'uso delle parti comuni, l'amministratore o i condomini, anche singolarmente, possono diffidare l'esecutore e possono chiedere la convocazione dell'assemblea per far cessare la violazione, anche mediante azioni giudiziarie. L'assemblea delibera in merito alla cessazione di tali attività con la maggioranza prevista dal II comma dell'art. 1136 cod.civ..

Va osservato che la norma richiede, ai fini del legittimo esercizio della facoltà di operare la diffida, un duplice requisito. L'attività deve incidere in maniera negativa e, parallelamente, anche in modo sostanziale sulle destinazioni d'uso degli enti comuni.

Non viene fornito un confine certo tra la legittima attività di utilizzo del bene e quella che non rientra nel suo ordinario uso. La tolleranza non comporta alcuna conseguenza. Il comportamento può non essere legittimo anche se viene tollerato dalla collettività degli abitanti dell'edificio.

La legittimazione attiva sostanziale contro il trasgressore è sia in capo all'amministratore, quale mandatario dell'edificio, sia in capo ai singoli condomini ; in tal senso può configurarsi come legittimazione alternativa.

Questi possono singolarmente diffidare l'esecutore chiedendo la cessazione immediata dell'attività "vietata" o possono convocare l'assemblea affinché la riunione decida al riguardo, domandando la cessazione delle attività.

La reale novità di tale disposizione risiede, quindi, nella previsione che il singolo possa richiedere la riunione assembleare perché si ponga fine alla violazione: nell’ordinamento vigente, infatti, fuori dei casi diversamente disciplinati, la richiesta di convocazione può essere presentata da almeno due condomini che rappresentino un sesto del valore dell’edificio (art. 66 disp. att. c.c.).

Per chiarimenti e consulenze scrivere alla seguente mail: chiara.consani@virgilio.it

 

1 commento:

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